“Italia Revisited #1” è la seconda mostra del 2024 alla Fondazione Sabe e, nello specifico la seconda di tre mostre consacrate alla fotografia lungo il corso dell’anno. «L’intento è quello di indagare sulla fotografia in rapporto alla scultura e allo spazio – spiega il direttore artistico Pasquale Fameli –. Dopo una prima mostra più formalista che ha avuto per focus la relazione tra foto e natura morta, e in attesa di un’esposizione più concettuale con Federica Muzzarelli sui temi sociali e delle pratiche sociali anche identitarie, ora con Baldini prendiamo invece in considerazione il rapporto tra foto e paesaggio, con un approccio sociologico».
Nell’introdurre la mostra, il curatore Claudio Marra ha ricordato che le etichette servono ma a volte possono anche essere limitanti. «La fotografia ‘media’ tra più cose e fa saltare le etichette coinvolgendo prospettive differenti – afferma –. Il lavoro di Baldini ben rappresenta questo concetto di ‘medianità’. Da un lato la fotografia rappresenta ma dall’altro lato presenta. Senza addentrarmi in articolate interpretazioni para-sociologiche, tese a spiegare cosa sia l’Italia contemporanea, cosa sia diventata, come sia cambiata, mi limito a fare qualche riferimento stilistico. Già dal titolo il suo progetto si mette in dialogo e prosegue la storia iniziata 40 anni fa da Luigi Ghirri con una mostra che ha fatto epoca, perché per la prima volta si andava oltre una visione cartolinesca dell’Italia. C’è un punto di continuità: la rappresentazione ma diverso è il linguaggio. Se Ghirri era molto lirico e poetico, per lui le foto erano un atto d’amore; Baldini è invece più asciutto quasi laconico, freddo, la sua è una fotografia che prende la distanza, sospende il giudizio e lo lascia agli spettatori».
Dal punto di vista dell’allestimento, colpisce subito il fatto che le 87 fotografie in mostra non sia incorniciate come pseudo-quadri. Oltre alle dieci gigantografie che invitato a guardare la realtà da un altro punto di vista, ci sono due grandi pareti tappezzate di foto come fossero le tessere di un mosaico o una scultura. L’invito è di guardare le foto insieme, resistendo alla tentazione di avvicinarsi troppo, perché l’intero blocco di foto è un’opera.
Massimo Baldini, anconetano di nascita e bolognese di adozione, ma con il suo studio in un casolare nella campagna lughese, ha poi raccontato com’è nato il protetto. «Marra mi ha dato i giusti input – ricorda – e soprattutto mi ha suggerito di abbandonare la fotografia in bianco e nero, perché il mondo è ormai a colori. Nel mio modo di fotografare c’è indubbiamente traccia della mia formazione, ho studiato sociologia, e del mio precedente lavoro, per 25 anni nell’editoria. La passione per la fotografia nasce da giovanissimo ma poi l’avevo accantonata. Lasciata la mia precedente carriera, da una decina d’anni mi occupo a tempo pieno di fotografia. In un mio primo progetto, che trae spunto dal libro “Gli italiani” con testi di Claudio giunta, ho fatto soprattutto ritratti. In questo secondo lavoro, le persone sono scomparse in quanto mi sono cimentato con il paesaggio non solo esterno ma anche interno, per mostrare i cambiamenti dell’Italia. Le foto non hanno titoli, non sono identificabili, e questa scelta può essere vista come una provocazione. Per me è solo un campionario con elementi che si ripetono».
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