BOLOGNA – Si può curare l’invecchiamento? Un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna ci sta provando, partendo da un nuovo approccio: considerare il complesso di problemi che sorgono con l’avanzare dell’età come una sorta di unico processo autoinfiammatorio. In questo modo diventerebbe possibile curare i diversi disturbi età-associati tutti insieme, piuttosto che uno alla volta come facciamo oggi.
A proporre l’idea è il team del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale (DIMES) dell’Alma Mater guidato da Claudio Franceschi, professore emerito Unibo, che per primo ha osservato come l’invecchiamento sia caratterizzato da uno stato di infiammazione cronica, sterile, e di lieve entità. Un fenomeno che è stato battezzato “inflammaging” – infiammazione (inflammation) legata all’invecchiamento (aging) – di cui fino ad oggi sapevamo però molto poco, in particolare sull’origine degli stimoli che lo promuovono e lo mantengono.
A fare luce su questo punto è un articolo pubblicato su “Trends in Endocrinology and Metabolism”. Nello studio, il gruppo di ricerca dell’Alma Mater propone l’ipotesi secondo cui una delle più importanti sorgenti di stimoli infiammatori che sostengono l’inflammaging sia costituita dalla continua produzione di “spazzatura molecolare” da parte delle cellule dei nostri organi e tessuti. Con l’invecchiamento, i sistemi dedicati a smaltire questi scarti perdono efficacia, provocando così l’attivazione delle cellule-spazzini del sistema immunitario innato, come ad esempio i macrofagi.
“Ormai è chiaro – spiega Claudio Franceschi – come i macrofagi e altre cellule con il compito di spazzini del nostro organismo siano in grado di riconoscere e fagocitare non solo batteri e altri microbi che invadono il nostro corpo e danneggiano le cellule, ma anche e soprattutto molecole dei nostri tessuti, se queste si presentano alterate, oppure fuori dal loro normale contesto anatomico. Il riconoscimento di queste molecole ‘fuori posto’ viene interpretato come segnale di pericolo da parte del sistema immunitario innato, che attiva l’infiammazione per eliminare la ‘spazzatura molecolare’ e riparare il tessuto. Un fenomeno fisiologico che però aumenta con l’età, portando così ad un’eccessiva secrezione di molecole infiammatorie. In questo senso abbiamo proposto l’ipotesi che l’invecchiamento sia sostenuto da un processo autoinfiammatorio”.
Pur non essendo immediatamente causa di patologie, l’inflammaging sembra però rappresentare uno dei maggiori fattori di rischio per praticamente tutte le malattie associate all’età: malattie neurodegenerative, tumori, malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, sarcopenia e depressione maggiore, solo per citarne alcune. Scoprirne l’origine e la dinamica di sviluppo diventa allora un elemento importante per ripensare l’intero approccio alla cura dei disturbi dell’invecchiamento.
“Pensare all’invecchiamento in questi termini – aggiunge la dottoressa Miriam Capri, ricercatrice del DIMES, tra i responsabili dello studio – ci ha fatto ipotizzare che l’inflammaging e lo stesso processo di invecchiamento possano propagarsi non solo da una cellula all’altra, ma anche da un tessuto o un organo all’altro, ovvero sia a livello locale che sistemico, come se si trattasse di una malattia infettiva”.
Una visione innovativa, questa, che apre scenari e prospettive in grado di consentire lo sviluppo di nuove strategie per ritardare l’invecchiamento: se le malattie età-associate condividono una comune origine infiammatoria, diventa possibile curarle tutte insieme, piuttosto che una alla volta come facciamo oggi.
Lo studio del gruppo di ricerca Unibo va così ad inserirsi nel campo della Geroscienza, nuova disciplina che sta cambiando in modo profondo, spesso ribaltandole, concezioni stratificate e ormai obsolete sul processo di invecchiamento e le patologie ad esso correlate.
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