“Mi sono sempre chiesta come una persona con alle spalle un trascorso così drammatico e pieno di sofferenza, costretto a vivere sulla sua pelle l’efferatezza della guerra e a vedere coi suoi occhi come l’odio posso spingere l’uomo alle azioni più impensabili, potesse invece essere così dolce, sensibile, serena. Era questa dolcezza a rendere ancora più speciale Franco Leoni Lautizi, testimone di una delle ferite più drammatiche che la guerra ha lasciato nel nostro territorio. Nell’eccidio di Marzabotto, tra i più cruenti in Italia del secondo conflitto bellico, Franco che nel 1944 aveva solo sei anni, vide morire davanti ai suoi occhi prima la nonna poi la madre, incinta, con cui Franco stava cercando di scappare dalle truppe naziste risalite sull’Appennino. Un’infanzia distrutta, segnata indelebilmente dalla sofferenza che proseguì anche nel dopoguerra, tra affidamenti, orfanotrofi, nuovi dolori. Poi la tortuosa strada conduce Franco a Rimini, dove inizia il secondo tempo della sua vita. Dove costruisce la sua famiglia e dove soprattutto trova la forza di compiere il passo più difficile e meno dovuto: quello di raccontare. Dal coraggio di raccontare credo nasca quella dolcezza e quella serenità, che sapeva trasmettere anche negli innumerevoli incontri realizzati grazie all’Associazione nazionale vittime civili di guerra con gli studenti delle scuole di Rimini, giovani con cui Franco amava dialogare nella consapevolezza lucida che è solo tramandando la memoria che possiamo impedire che la storia si ripeta. Tra le tante occasioni che ci hanno visti insieme, ricordo con affetto anche un’iniziativa che coinvolgeva l’Anvcg – associazione che promuove e sostiene il consolidamento della pace, alla cooperazione e all’amicizia tra gli Stati – e un gruppo di profughi di diversa provenienza: è stato uno scambio di esperienze, racconti e storie diverse, ma con tanti tratti comuni. Perché le conseguenze della guerra, dei conflitti e dell’odio, non hanno epoca e latitudine.
Con la scomparsa di Franco, Rimini e l’Italia perdono un testimone prezioso e una persona straordinaria. A nome dell’Amministrazione mando un abbraccio e un pensiero ai famigliari, all’Anvcg e ai tanti che gli hanno voluto bene, come gliene ho voluto io”.
Di seguito la sintesi dell’intervento tenuto al convegno “Vittime e conflitti. La dignità negata. Testimonianze dirette a confronto” organizzato al teatro degli Atti dall’Associazione nazionale vittime civili di guerra (ANVCG) nel febbraio 2018.
”Dodici famigliari, duecentosedici bambini, settecentosettanta civili – ha ricordato Leoni Lautizi – furono sterminati tra il 29 settembre e il 5 ottobre del ’44, a Marzabotto, dove vivevo con la mia famiglia. Io avevo 6 anni e fui uno dei soli otto bambini scampati a quel terribile massacro dove, però, avevo perso tutti. Ricordo ancora molto bene quei momenti tragici, le truppe tedesche delle SS che iniziano a sparare a raffica; mia nonna, la prima a cadere con una pallottola in testa, io e mia mamma che riusciamo a scappare e nasconderci dietro il pagliaio ma la paglia, purtroppo, non ferma i proiettili. Io ne presi due, ma non mortali, mia madre, in prossimità di partorire il figlio che portava in grembo, e non riusciva nemmeno più a camminare, fu colpita invece proprio al ventre. Non morì subito e quelle ore che passai in solitudine con lei non le dimenticherò per tutta la vita; dalle due e mezza del pomeriggio a sera nessuno poteva infatti venire a soccorrerci – gli uomini erano scappati per resistere nel bosco – e io e mia madre rimanemmo soli. Ho nelle orecchie le sue urla strazianti, che non sembravano nemmeno provenire da un essere umano, un dolore fisico immenso che nulla era di fronte agli occhi che raccontavano la consapevolezza di una persona che aveva perso, e stava perdendo, tutto. Nonostante questo ebbe il coraggio di tenermi per mano, parlarmi e consolarmi, facendomi arrivare vivo fino all’arrivo dei primi soccorsi. Nonostante le terribili ferite riuscivo a sentire la gente che parlava e di fuori, scavare le buche per seppellire mia nonna, mia mamma, e anche me; mi davano per spacciato. Quando mio padre tornò in paese, insieme agli altri uomini, non riuscì a resistere alla vista delle tre buche, credendo di aver perso anche il figlio, oltre la mamma, la moglie e quasi tutti i suoi parenti. Si consegnò allora ai tedeschi che, dopo averlo fatto lavorare per alcuni giorni, lo fucilarono in riva al fiume. Lo ritrovammo un anno dopo, lo riconobbi dai vestiti e da un penna stilografica spezzata in due da un proiettile. Fu il suo ricordo che tenni con me per tanto tempo. Furono giornate di una crudeltà infinita, intorno a noi tutto era distruzione, morte, violenza. Riuscì alla fine a sopravvivere ma le sofferenze non finirono con la fine della guerra. Il dopoguerra fu terribile. La sorella di mio padre a cui ero stato affidato mi trattava malissimo, non mi perdonò mai di essere sopravvissuto alla mia famiglia. Mi picchiava sempre e, alla fine, venni portato in un orfanotrofio. Erano istituzioni tremende allora, con suore formate nel periodo fascista, abituate a far rispettare gli ordini anche alzando le mani. Ricordo una fame atavica, nel dopoguerra non avevamo niente, la miseria più nera. Per natale il regalo più ambito era un mandarino, di cui mangiavamo anche la buccia e ci nascondevamo in tasca i semi, per serbare più a lungo il ricordo del suo sapore.
Ero insieme ad altri centocinquanta orfani ma a me non veniva mai a trovare nessuno, anche una caramella mi avrebbe fatto felice, ma niente e nessuno si occupava di me. Poi, all’improvviso, la svolta. Mi chiamano per un colloquio e vedo questa signora anziana che mi fissa chiedendomi semplicemente se me la sentivo di andare a vivere con lei. Ricordo come oggi la mia risposta: ”Si mangia?”, solo quello. Non sapevo che era una ricca e facoltosa signora che abitava nelle Marche. Con lei vissi un anno in paradiso, da signore, nel vero senso della parola. Ma l’ennesima beffa del destino era dietro l’angolo. La mia nuova madre si ammala e muore e io, pur regolarmente adottato, vengo espropriato da tutori (fino a 21 anni allora non si era maggiorenni) senza scrupoli di tutta la ricca eredità e sono costretto, ancora una volta, a ricominciare la mia vita da capo.
Dopo varie peripezie mi sposo e mi trasferisco a Rimini, dove ancora oggi vivo e dove ho lavorato per tanti anni in Comune, e dove ho messo alla luce i miei sei figli. Dopo anni di silenzio ho accettato di parlare della mia vita e della mia esperienza. Lo faccio soprattutto per voi giovani, per farvi capire cosa sia davvero la tragedia di una guerra. Spesso, soprattutto i più piccoli tra voi mi chiedono come ho fatto a perdonare tanto odio. Io rispondo che con l’odio ho convissuto anche troppo, ma che senza perdono noi non viviamo, portiamo avanti una parvenza di vita. L’episodio da cui nasce il mio percorso di perdono è particolare, quasi insignificante. Arrivato a Rimini incontro un gruppo di giovani tedeschi che avranno avuto all’incirca la mia età, era da noi per il mare, per la vacanza. Fino ad allora odiavo ancora i tedeschi. Guardando quei ragazzi ho capito che loro non c’entravano niente con una guerra che, come a me, sicuramente aveva tolto qualcosa anche a loro. No, l’odio non aveva più senso, cominciai così un percorso interno di perdono e riconciliazione con il mio passato. Incominciai a vivere.
Gli studenti più attenti sono quelli delle scuole elementari perché il loro cuore e la testa sono più liberi e si immedesimano in me, nella mia storia. Piangono, a volte vengono da me e mi abbracciano, potrei essere il loro nonno.
Anche se, forse, sono rimasto orfano nell’anima, ho tenuto di mia madre il ricordo della sua bellezza, più forte del male e della morte. La mia poesia a lei oggi è scritta sui sentieri che accompagnano i visitatori sui luoghi dell’eccidio. La sua dolcezza mi ha tenuto in vita, il ricordo della sua bellezza mi spingono ad essere qui con voi a raccontare e testimoniare la vittoria del perdono, nonostante tutto, sull’odio e sulla morte”.
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