Oggi la cerimonia per commemorare gli eccidi della Certosa di Ferrara del 10 e 20 agosto 1944

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Martedì 10 agosto 2021 alle 9.30 al cippo commemorativo davanti al tempio di san Cristoforo

FERRARA – Tra il 10 ed il 20 agosto 1944, nove patrioti ferraresi furono trucidati all’interno della Certosa cittadina. A ricordo di questi tragici eventi fu apposto un cippo sul muro antistante il Tempio di S. Cristoforo. Per onorare la memoria dei caduti martedì 10 agosto 2021 alle 9.30 in Certosa a Ferrara si è svolta una cerimonia che prevedeva, alla presenza delle Autorità Civili, Militari e Religiose e di una rappresentanza delle Associazioni Partigiane, Combattentistiche e d’Arma, la deposizione di una corona e gli onori militari.

Sono intervenuti in rappresentanza del Comune di Ferrara l’assessore alle Politiche giovanili, Cooperazione internazionale e Servizi informatici Micol Guerrini e Antonella Guarnieri referente per il Museo del Risorgimento e della Resistenza. A conclusione della cerimonia è prevista una lettura di brani tratti dal ‘Diario del cappellano delle carceri’ don Lelio Calessi a cura di Chiara Mazzacano (Istituto di Storia Contemporanea).

L’iniziativa, coordinata dal Comune di Ferrara, è a cura del Comitato per le celebrazioni degli Eccidi della Certosa.

LA SCHEDA (a cura della storica Antonella Guarnieri) – La notte del 10 agosto 1944, in piena seconda guerra mondiale ed occupazione nazi-fascista, a Ferrara, presso la Certosa, vengono uccisi sette uomini, tutti appartenenti alle file del PCI, allora clandestino. La motivazione della loro fucilazione, avvenuta dopo torture inimmaginabili e documentate dallo stato indescrivibile in cui i familiari trovarono i cadaveri presso l’obitorio prima della tumulazione, era quella di una rappresaglia per l’uccisione, da parte di un GAP (Gruppo di Azione Partigiana) del Maresciallo di Ps Mario Villani, tristemente noto alla cittadinanza per la violenza con cui esercitava il proprio incarico. I sette uomini, Gaetano Bini, Guido Droghetti, Tersilio Sivieri detto Destino, Amleto Piccoli, Guido Fillini, Renato Squarzanti e Romeo Bighi, non avevano fatto parte dell’operazione che aveva portato all’uccisione di Villani, essendo già in carcere, e vengono sacrificati per la loro appartenenza all’organizzazione scoperta pochi giorni prima all’interno della fabbrica della gomma sintetica. La notte del 20 agosto 1944, un nuovo eccidio viene compiuto sempre nei pressi della Certosa: ad essere fucilati, dopo inimmaginabili torture, Donato Cazzato, di Acquarica del Capo (Lecce) e il veneto Mario Zanella, accusati di essere gli autori, insieme a Mario Bisi, inspiegabilmente suicidatosi in carcere, secondo quanto disse il vice questore De Sanctis, mentre era ammanettato. Entrambi gli eccidi vennero compiuti senza che venisse emessa nessun tipo di sentenza da parte degli organi competenti.

INTERVENTI di martedì 10 agosto 2021 – Cerimonia Eccidi della Certosa 

Assessore Micol Guerrini

Cittadine e cittadini, autorità civili, militari e religiose, rappresentanti delle associazioni partigiane, combattentistiche e dell’arma, componenti delle Forze Armate

siamo qui oggi davanti a questo cippo, per continuare a mantenere vivo e far crescere in tutti noi, e particolarmente nei giovani, il ricordo di chi ha sacrificato la propria vita per la liberazione del nostro Paese.

In questo giorno, poco prima dell’alba di 77 anni fa, presso il muro della Certosa, dopo essere stati ferocemente torturati furono fucilati sette cittadini ferraresi: TERSILLO SIVIERI, GUIDO DROGHETTI, AMLETO PICCOLI, GAETANO BINI, GUIDO FILLINI, ROMEO BIGHI, RENATO SQUARZANTI.

La sera del 20 agosto altri due uomini, DONATO CAZZATO e MARIO ZANELLA seguirono la stessa sorte. Un terzo, MARIO BISI morì invece suicida nei locali della questura, dove era stato trattenuto e brutalmente torturato a causa delle indagini avviate in seguito all’uccisione del maresciallo di PS Mario Villani.

La ricorrenza odierna e quella del prossimo 20 agosto sono quindi ancora una volta occasione per trovarci insieme per commemorare uno dei momenti più drammatici della storia della nostra comunità, anche se non certo l’unico di quegli anni travagliati segnati dall’avvento del fascismo e dalla seconda guerra mondiale.

L’eccidio della Certosa è infatti uno dei tanti, troppi, tragici eventi dei quali fu protagonista la nostra città: basti pensare al primo, l’Eccidio Estense del 15 novembre 1943 che ferì profondamente non solo Ferrara ma il Paese tutto, e quelli altrettanto tragici che lo seguirono come l’eccidio del Doro e quello di Porotto.

Oggi ancora una volta, come per coloro che ci hanno preceduti, il nostro compito è quello di tenere vivo il ricordo di questi nostri concittadini, per ritrovare e tramandare i loro ideali di democrazia e libertà. Valori oggi non certo svaniti ma trasmessi a noi con il loro sacrificio perché ne diventassimo portatori a nostra volta.

I loro nomi sono fissati nel marmo di questa lapide ma la loro memoria e il loro esempio devono continuare a vivere attraverso noi.

A loro andrà sempre il nostro GRAZIE

Antonella Guarnieri – referente per il Museo del Risorgimento e della Resistenza

Dopo gli anni terribili dello squadrismo, che videro il fascismo, guidato da Italo Balbo, allearsi con i grandi proprietari terrieri locali, dei quali inizialmente il movimento fascista era stato avversario, e seminare morte e violenza, in città e provincia, rubando a mano bassa ciò che gli operai ed i braccianti agricoli avevano raccolto nelle cooperative rosse e bianche, la città di Ferrara, una città prettamente borghese, quasi totalmente priva di proletariato di fabbrica, divenne in breve “la fascistissima”.

Balbo, da Ras violento, dopo aver vinto anche gli scontri interni, iniziò un’opera di “normalizzazione” della società estense, soprattutto quella cittadina: centrale, per una città ricca di storia e di arte, il lavoro di carattere culturale, messo in atto attraverso importanti esperti delle settore, il rilancio dell’Università, il lustro dato agli studi corporativi.

Con perspicacia e senso della realtà costruì un forte legame con tutte le componenti borghesi, da quelle di minore a quelle di maggiore rilievo; un rapporto così solido che solo la legislazione razziale e la guerra cominciarono ad incrinare.

È in questo clima quasi di idillio tra la città estense ed il fascismo, dico quasi perché la Ferrara povera ed emarginata, la Ferrara di Borgo San Luca e delle immediate periferie, quella tenuta fuori dal boom ferrarese degli anni ’30 perché socialista, comunista o comunque antifascista, continuò a coltivare l’avversione al regime dittatoriale, si colloca il lavoro indefesso svolto da intellettuali ma anche da semplici operai ed esponenti di partito, soprattutto, socialisti e comunisti, volto a mantenere viva, seppure in clandestinità, l’opposizione al regime dittatoriale.

Un lavoro difficile, durissimo e rischioso, osteggiato da tanti concittadini che avevano tratto profitti economici dal fascismo, e controllato con sistematicità dagli organi di polizia politica del regime. E’ interessante, per questo, ricordare alcuni dati relativi all’antifascismo ferrarese, per i quali ringrazio la storica Delfina Tromboni:

I processi davanti al Tribunale Speciale per la difesa dello stato dal 1927 al 1943 (il numero è comprensivo sia delle ordinanze, emesse per non luogo a procedere dopo la fase istruttoria o per passaggio ad altro giudice, che delle sentenze vere e proprie) furono 72.

Il numero dei processati richiede uno studio più approfondito, perché qualcuno è stato processato più di una volta (Putinati, Bosi, Marx Guglielmini, Mario Lambertini e pochi altri), ma, tenendo conto della precisazione, sono all’incirca 180, per attività svolta nel Ferrarese e fuori Ferrara, dove in genere si trovavano dopo aver dovuto scappare dalla città estense.
I condannati furono 95.

Invece i ferraresi (nel senso di nati e/o residenti a Ferrara e provincia nel ventennio) inseriti nel Casellario Politico Centrale sono 1.772. Delfina Tromboni calcola che vadano moltiplicati almeno per 4 per avere il numero complessivo degli schedati nel casellario politico locale, gestito dalla Questura di Ferrara a cui afferiva la Squadra politica, negli stessi anni.

È in questo quadro, aggravato dalla crisi sociale sempre più acuta determinata dallo scoramento sopraggiunto dopo l’occupazione nazi-fascista, la costituzione della RSI e le violenze feroci messe in campo immediatamente da questo governo di occupazione, oltre che dal proseguimento della guerra, che vanno contestualizzati gli avvenimenti che condussero ai due eccidi che stiamo ricordando.

I sette coraggiosi uomini che ne furono vittime, non avevano compiuto nessun atto violento contro il fascismo, ma erano operai presso lo stabilimento della “gomma sintetica” ed appartenevano ad una cellula comunista che era stata scoperta proprio in quei giorni.

Anche se ufficialmente nessuno ne parlava, le autorità fasciste ferraresi erano da tempo in fibrillazione, perché già prima del 25 luglio 1943 nella città estense era stato individuato un movimento antifascista, interclassista ed interpartitico, detto “dell’Italia libera”, molto forte e radicato, che preoccupava le autorità molto più del gemello bolognese, che era radicato principalmente in ambito intellettuale. Quel gruppo fu importante a livello nazionale perché, come disse Giorgio Amendola a Ferrara in un discorso del 1955 per ricordare gli eccidi di novembre “Si avviò da questa città il lavoro preparatorio necessario a vincere resistenze e diffidenze e pregiudizi discriminatori che ancora si opponevano all’Unità antifascista”.

Nel solco tracciato da quegli uomini e da quelle donne (Alda Costa, Giorgio Bassani, Giovanni Buzzoni, Tancredi Zappaterra, Matilde Bassani che agiva a Padova insieme al Rettore di quell’Università Concetto Marchesi e tanti altri) si colloca la storia dei 7 uomini massacrati alla Certosa di Ferrara: erano uomini stanchi di una dittatura, delle angherie dei fascisti e di quanti da loro venivano protetti, che, organizzati dal PCI, decisero di militare clandestinamente, distribuendo volantini e cercando di convincere gli altri che era giunto il momento di rovesciare l’ingiusto regime.

Pagarono l’avversione al regime con la vita, senza aver compiuto atti violenti, nella notte tra il 10 e l’11 agosto vennero condotti davanti al plotone di esecuzione, dopo terribili torture, per vendicare la morte del Maresciallo Villani, ucciso il giorno precedente da un Gap in via Scandiana:
Sivieri Tersilio
Guido Droghetti
Amleto Piccoli
Gaetano Bini
Guido Fillini
Renato Squarzanti
Romeo Bighi

Il 21 agosto furono uccisi Donato Cazzato e Mario Zanella, mentre in carcere trovò la morte Mario Bisi, il capo del Gap (Bisi, Cazzato, Cofano) che sottoposto a orribili torture confessò di aver ucciso Villani. Tutti dopo interrogatori lunghissimi e torture inenarrabili e senza processo.

Gli intellettuali senza il popolo valgono quasi nulla e fu il lavoro indefesso di uomini, antifascisti di diversi colori politici, di raccordo con la piccola ma assai vessata realtà comunità operaia e proletaria estense a conquistarne una parte rilevante all’antifascismo ed alla lotta attiva. Fu necessario far crescere, facendo circolare cultura e quando si poteva dialogo, la consapevolezza politica di tante donne e uomini che divisi valevano nulla, uniti molto di più. Fu necessario tentare di far crescere nella massa bracciantile quella consapevolezza politica, che, nel 1921, tra i braccianti affamati ed analfabeti era certo labile, al punto da consentire allo squadrismo di scardinare il movimento operaio locale, definito da più parti, in seguito, “un gigante dai piedi di argilla” .

È questo uno dei tanti moniti che lasciano alla nostra società in crisi questi uomini: consapevolezza politica, senso di comunità e di appartenenza, capacità di decidere da che parte stare: dalla parte di una dittatura violenta, manipolatrice, impostata alla protezione di una parte sola della società, quella più ricca e potente che l’aveva portata al potere o dalla parte della democrazia, dei valori di giustizia e Libertà e della possibilità data ad ognuno di un miglioramento delle proprie condizioni di partenza.

Forse leggere questa dicotomia, ripensare alla democrazia come questi uomini la pensarono e per decenni la fecero vivere, ci aiuterà a ritrovare la strada per una società appunto più Giusta e Libera, per la quale morirono.

Chiara Mazzacano – Istituto di Storia Contemporanea 

L’ECCIDIO DELLA CERTOSA NEL DIARIO DI DON LELIO CALESSI

Leggerò alcuni brani tratti dal diario del Cappellano delle Carceri Don Lelio Calessi. Si tratta di un documento emozionante, carico di pietà, un’importante testimonianza di valore storico e culturale.

“Verso le 22 del giorno 10 agosto sentii suonare il campanello. Corsi alla finestra, nonostante le riluttanze della domestica, che non voleva che aprissi a nessuno perché la giornata era stata funestata dall’uccisione del maresciallo Villani e si temevano rappresaglie.

‘Il questore ha bisogno di lei, subito’, mi disse uno dei due che attendeva da basso. Chiesi con molta apprensione di che si trattasse a quell’ora. Gusmano mi rispose che vi era un ammalato grave.

Mi recai in questura. I locali erano affollati di agenti e funzionari. Chiesi subito dove si trovasse l’ammalato, ma pareva che tutti si meravigliassero della mia presenza. Attesi più di mezz’ora – la più angosciosa della mia vita – perché già immaginavo che dovevo essere certamente incluso nell’elenco delle vittime della rappresaglia.

Il dottor Baldi, il medico delle carceri, mi disse che mi aveva proposto per un pietoso incarico. Ma quale incarico? L’assistenza religiosa ad alcuni che dovevano essere passati per le armi. Alle 2.30, per una scala a chiocciola mi fecero entrare nei locali superiori della questura. Mi sedei, misi sul tavolo il crocifisso e aspettai, raccomandandomi a Dio che mi ispirasse le parole che dovevo rivolgere a quei disgraziati.

Otto erano destinati al barbaro supplizio: tranne uno, tutti fecero le loro devozioni, se non con completa rassegnazione, con maggior serenità di quella che avrei potuto supporre in una circostanza così spaventosa.

Quando entravano – a uno a uno – li facevo sedere vicino a me. Ascoltavo le loro parole, piene di angoscia più che di spavento; li lasciavo sfogare. Quello che dicevano era vero: essi erano innocenti. Quella larva di processo notturno era un semplice pretesto per conferire una parvenza di legalità a una condanna. Sentivo orrore della società, del regime. Quale ironia. Condannare otto innocenti per vendicare la morte di un farabutto, più assassino di tutti quelli che aveva seviziato!

Compiuta la confessione li comunicavo, poi li baciavo e loro mi ricambiavano con effusione. Ho accolto le loro estreme commissioni: chi voleva che i genitori sapessero che erano morti con i conforti religiosi; chi voleva essere ricordato da persone da cui avevano avuto qualche favore. Commissioni che dovetti eseguire con grande circospezione per non compromettere innocenti benefattori. Uno mi incaricò di far sapere alla fidanzata che l’ultimo pensiero era stato per lei. Verso le 5 partii dalla questura col dottor Baldi e col vice questore. Incominciava ad albeggiare. Vi era una bellissima luna e di quando in quando si vedeva una stella cadente: era la notte di San Lorenzo. Quanta tristezza!

Davanti al muricciolo, dirimpetto al piazzale della chiesa della Certosa, vi era il plotone di esecuzione. Erano in 20. Mi fu detto che nessuno dei questurini aveva accettato volentieri il triste incarico. Uno, anzi, mi chiese se commettesse colpa a sparare su innocenti. Poco dopo arrivarono i condannati. Erano legati con una catenella al braccio, a due a due. Mi avvicinai subito a loro e mostrai ancora una volta il crocifisso. Furono condotti al muro fatale. La crudeltà umana ha voluto fucilarli alla schiena. I primi quattro erano già là. Il giovane Bighi, che era il primo a destra, disse: ‘Ci potevano fucilare al petto, perché cattive azioni non ne abbiamo fatte. Reverendo, non ci abbandoni’. Io ero più morto che vivo.

Sentii una forte denotazione di moschetti, il vento e la polvere venirmi contro, e vidi i quattro rovesciarsi supini esanimi.

Il primo a sinistra – il Bini – non era ancora morto: mandava urla pietose; fu subito finito da una revolverata sparata da chi teneva il triste comando.

Gli altri quattro attendevano silenziosi la loro sorte: quand’ecco, appena fu data la scarica, cogliendo il momento, uno – si trattava di Balestra – liberatosi non si sa come dal compagno, fuggì per via Borso. Non so come sia salvato dalle pallottole che gli sparavano contro. Poco dopo i tre rimasti subirono la stessa sorte. Tutti si mostrarono calmi. Gli esecutori della sentenza dovevano poi collocare le salme sulle barelle, per condurle in camera mortuaria. Ma non c’era verso: provavano un’indicibile ripugnanza. Il dottor Baldi disse: ‘Hanno avuto il coraggio di ammazzarli, ma non di portare le salme in camera mortuaria’. Erano ormai le sei quando tornai a casa.

Per alcuni giorni non mi fu possibile dormire: il cuore non mi pareva battesse normalmente. Esposi all’Arcivescovo quanto qui sta scritto: mi pregò di farne memoria”.

Don Lelio Calessi.