Stando, infatti, alla recente normativa, che compare tra gli articoli proposti dall’esecutivo, in merito al DDL sul Pnrr, si intenderebbe, udite udite, per far fronte alla carenza di personale, in particolare per sopperire alla drammatica voragine di professionisti nella sanità pubblica, concedere nuove deroghe per il reclutamento di operatori sanitari stranieri o comunque di operatori sanitari che non avrebbero al momento un titolo equiparato al nostro e che non potrebbero di fatto, garantire, lo dice la legge, le medesime competenze di cui i nostri infermieri e le nostre ostetriche sono, da sempre, la massima espressione .
Stiamo parlando di professionisti che hanno conseguito il loro titolo lontano dall’Italia e che non potrebbero, di fatto, esercitare nei nostri ospedali, oppure nelle nostre Rsa, e sui quali si intende puntare invece come soluzione idonea per tappare le falle.
La proroga avrà validità di sei mesi dall’approvazione della legge, ma dovrà anche passare dal tavolo di trattativa tra governo e Regioni, che materialmente dovranno accogliere i professionisti nelle loro strutture sanitarie, sia pubbliche che private.
Altro che mezzo passo indietro, questo ci sembra un triplo salto mortale nel vuoto!
Cosa possiamo affermare a questo punto, di fronte a questa norma, se non che, nel pieno dello sconforto per quanto sta accadendo, ma anche della rabbia legittima, abbiamo il timore concreto di ritrovarci nuovamente davanti alla “sagra delle promesse mancate”, da una parte, ma soprattutto dei paradossi dall’altra, a cui questo nostro malandato SSN è ahimè abituato, ma rispetto al quale, nel contempo, noi, sindacato delle professioni sanitarie, garanti dei diritti degli infermieri e degli altri professionisti ex legge 43/2006, non possiamo certo mestamente piegarci.
Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up.
Riprendiamo testualmente una parte della norma, un cui passaggio, in particolare, ci sconcerta non poco, nel momento in cui si afferma che, alla luce della voragine di personale, appare indispensabile, come piano risolutivo, concedere le suddette deroghe in merito ai titoli di studio di operatori sanitari non equiparati ai nostri, conseguiti all’estero, definendola opzione non rinunciabile.
“Superata l’emergenza Covid, persiste la necessità di fronteggiare la carenza di personale sanitario e socio-sanitario presso le strutture sanitarie e socio sanitarie pubbliche e private. Pertanto il reclutamento temporaneo di operatori in possesso di titoli sanitari conseguiti all’estero, non riconosciuti per l’esercizio in Italia di una corrispondente Professione Sanitaria o di Oss, rappresenta ancora oggi un’opzione non rinunciabile, la quale, tuttavia, rispetto a quanto previsto dalla originale disposizione emergenziale, necessita ora di essere disciplinata compiutamente atteso il carattere quasi strutturale e di sistema che la misura ha acquisito con il decorrere del tempo”.
Facciamo fatica a comprendere, facciamo fatica a districarci in un modus operandi che, ancora una volta, non valorizza prima di tutto. le competenze umane, enormi e innegabili, a nostra disposizione.
Non abbiamo mai osteggiato, sia chiaro l’inserimento di professionisti stranieri nel nostro sistema sanitario, che potrebbero sicuramente essere utili alla causa, come già avvenuto durante la pandemia, se opportunamente instradati in percorsi di integrazione del proprio di titolo di studio e delle proprie conoscenze, in funzione di quanto loro richiesto per operare in un sistema sanitario complesso come il nostro.
Tuttavia non possiamo accettare che questa soluzione sia vista, da questo Governo, in questo momento, come la panacea di tutti i mali, quando invece si persegue nell’ignorare che, prima di ogni cosa, la valorizzazione del nostro personale sanitario, già in forza ai nostri ospedali, rappresenta la strada maestra per la ripartenza, restituendo così appeal ad una professione che vive il dramma delle dimissioni volontarie, delle fughe all’estero dei nostri migliori professionisti, del calo alle iscrizioni ai corsi di laurea in infermieristica, senza dimenticare le nefaste ricadute che tutto questo continua e continuerà ad avere sulla collettività e sulla qualità delle prestazioni ad essa offerta.
Ci confortano drammaticamente, ma non avremmo mai voluto fosse così, i dati del Gimbe, che al pari di quanto rivelò lo scorso gennaio la Corte dei Conti, evidenzia che siamo di fronte ad un gap di 12 mld rispetto ai Paesi Ue.
I numeri parlano chiaro: “la nostra sanità pubblica ha cumulato negli anni un gap che pare incolmabile rispetto ad altri grandi Paesi. Nel 2021 – rilevano da Gimbe – la spesa pubblica pro capite si ferma a 3.052 dollari rispetto ai 3.488 dollari della media Ocse e in Europa ci collochiamo al 16esimo posto: ben 15 Paesi investono più in sanità (si va dai 285 dollari della Repubblica Ceca ai 3.299 dollari della Germania)”.
“Senza più pretendere di guardare a Paesi come Germania e Francia ponendosi obiettivi irrealistici – commentano i vertici del Gimbe – entro il 2030 occorre allineare il finanziamento pubblico almeno alla media dei Paesi europei rispetto ai quali nel 2020 il gap era già di quasi 12 miliardi di euro nel 2021. Non basterebbe, in ogni caso, rifinanziare: la destinazione d’uso delle risorse, è la richiesta, va vincolata per rilanciare le politiche del personale, garantire l’erogazione uniforme dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e consentire un equo accesso alle innovazioni. Investendo anche sulla ricerca indipendente almeno il 2% del finanziamento pubblico per la sanità”.
«Il quadro allora diventa desolante, dice ancora De Palma: i Governi del nostro Paese, da troppo tempo, non investono adeguatamente negli uomini e nelle strutture, lasciando tristemente ferma al palo la nostra sanità.
Ed ecco che, quando poi i problemi rischiano di diventare piaghe insanabili, si cercano soluzioni che non tengono in alcun modo in considerazione lo straordinario patrimonio professionale e umano di cui disponiamo, lasciandolo alla mercé di una mediocrità a cui non vogliamo, non possiamo abituarci», chiosa De Palma.
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