Siamo di fronte “alla colonna portante”, alle fondamenta di un edificio altissimo ancora tutto da costruire, ma questa e’ una fase cruciale, ed occorre porre le basi per evitare che il palazzo crolli al primo soffio di vento.
Lo avrete capito bene, ci riferiamo alla Missione 6 del Pnrr, quella che riguarda appunto il rapporto strettissimo e delicato tra gli operatori sanitari e la collettività.
Non possiamo certo far finta di non comprendere che siamo di fronte ad una occasione da non perdere, dal momento che le risorse a disposizione sono davvero ingenti e superano, nella totalità della sola missione 6, i 15 milioni di euro (oltre 7 sono solo i miliardi a disposizione per gli obiettivi da raggiungere entro il 2016 nei punti che riguardano la ricostruzione totale della sanità territoriale).
Non possiamo essere pienamente soddisfatti, dice Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up, di fronte a contenuti che a nostro avviso, pur meritando ulteriori e doverosi approfondimenti, a primo impatto, stentano a rispecchiare quelle solide premesse con cui questa Missione 6 era stata presentata.
E ci riferiamo naturalmente, per ciò che ci riguarda direttamente come sindacato delle professioni sanitarie, al ruolo chiave degli infermieri di famiglia che a nostro avviso, almeno a giudicare dai contenuti di questo DPCM, e se non ci si vuole fermare alla mera retorica, deve essere ancora esploso», dice ancora De Palma.
«Non vorremmo davvero ritrovarci nuovamente di fronte all’ennesimo progetto che rischia di rivelarsi come una scatola vuota, come fumo negli occhi.
Non possiamo permettercelo: troppo importante, lo diciamo da tempo, è la figura dell’infermiere di famiglia nel presente e nel futuro della sanità territoriale del nostro Paese, da troppo tempo questa professione attende di spiccare il volo, da troppo tempo abbiamo assistito al pericoloso gioco delle promesse in pompa magna miseramente mancate.
Partiamo dall’inizio: che fine hanno fatto i 9600 infermieri di famiglia che una legge doveva collocare in modo radicale da Nord a Sud nell’ambito del Decreto Rilancio? E stiamo parlando dell’ormai lontano luglio 2020. I dati in nostro possesso dicono che poco meno del 20% è stato inserito e collocato nei nostri territori.
Le necessità della popolazione nel frattempo si sono evolute e il peso della pandemia da una parte, con l’inesorabile previsione del trascorrere del tempo e l’avanzare dell’età dei cittadini dall’altra, ci mette di fronte oggi a un fabbisogno ben diverso, a cui si uniscono appunto le esigenze legate al nuovo PNRR.
Tra Ospedali di Comunità e Case di Comunità saremo di fronte, entro il 2026, tempo di scadenza per l’inizio della messa in atto della Missione 6, a un nuovo fabbisogno di oltre 30mila infermieri. (30.485 unità) secondo l’accurata indagine del 2021 di Luoghidicura.it
E stiamo parlando degli infermieri di famiglia, che dovranno garantire la gestione, tra le tante altre cose, degli Ospedali di Comunità.
Inutile ricordare, citiamo testualmente la normativa che riguarda il PNRR Missione 6, che “L’Infermiere di Famiglia e Comunità è il professionista che mantiene il contatto con l’assistito della propria comunità in cui opera, e rappresenta la figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità, perseguendo l’integrazione interdisciplinare, sanitaria e sociale dei servizi e dei professionisti e ponendo al centro la persona. La Missione 6 del PNRR parla di fatto la lingua degli infermieri: reti di prossimità, Case e Ospedali di comunità, domicilio sono gli strumenti su cui si sta impostando il nuovo modello per dare gambe all’assistenza territoriale del Recovery Plan. Gli obiettivi sono di garantire da un lato assistenza costante, senza lasciare mai solo nessuno, e dall’altro la prevenzione per i cittadini, a partire dai 26 milioni di essi con cronicità semplici o complesse che troveranno il loro riferimento nelle Case di comunità, Ospedali di comunità e Assistenza domiciliare integrata (ADI)”.
E veniamo a quello che nel DPCM in questione non ci convince a pieno e merita quindi ulteriori e doverosi approfondimenti.
Punto 1. Secondo il provvedimento, l’infermiere “è referente della risposta ai bisogni assistenziali e di autocura, contempla tra le sue attività la prevenzione e la promozione della salute nella presa in carico del singolo e della sua rete relazionale, si relaziona con gli attori del processo ed è di supporto per l’assistito nelle diverse fasi della presa in carico”.
Ovvia e scontata, “la citazione sopra richiamata”, che in qualche modo da impulso a norme che già appartengono al vigente diritto professionale, ma che non può considerarsi esaustiva del complesso ed articolato alveo di responsabilità afferente ai professionisti infermieri, nell’ambito di in contesto tanto delicato come quello dell’assistenza territoriale, e che invece, almeno per come la vediamo noi, meriterebbero di essere richiamate, seppur in via generale ed astratta.
Punto 2. Questo provvedimento prevede la presenza di 1 infermiere di famiglia e di comunità ogni 3000 abitanti, numero più alto di quello previsto dalla normativa vigente, ma ancora basso rispetto alle reali esigenze, che per noi non dovrebbero discostarsi da quelle indicate dal gruppo di lavoro Agenas / Ministero della Salute, che a metà del nel 2021 elaborò un documento programmatico evidenziando l’inderogabile necessità della presenza di 1 infermiere di famiglia ogni 2mila/2500 abitanti e non 3mila.
Punto 3. Tutto inesorabilmente rischia di trasformarsi in una eterea bolla di sapone, se sull’altro piatto della bilancia non si concretizza, e qui ci vuole pragmatismo e non mere linee di indirizzo, un concreto, tangibile e radicale piano di assunzioni che, finalmente, venga attuato in modo capillare da Nord a Sud, conclude De Palma.
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