PIACENZA – Rientra oggi, dal Senegal, il gruppo in viaggio con l’associazione Diaspora Yoff nell’ambito del progetto Kamlalaf. Nelle parole di Daniela Razzini – accompagnate dalle immagini di Matteo Stefano Tiboni – le emozioni della tappa all’isolo di Gorè e il valore della libertà.
Questo cielo che sembra palpabile, il mare che scivola a strapiombo sugli scogli, la cui vastitá arriva lontanissimo, su una superficie di onde lievi, di brezza profumata di libertà. Giá, libertà e dignitá, il significato del nome dell’ isola di Gorè. Quella agognata libertà che in tutta l’Africa 7 milioni di schiavi si sono visti negata, costretti a sopravvivere (per chi ci riusciva, dato che circa la metà degli individui moriva) con manette, collari, piombi ai piedi, stipati in anfratti strettissimi.
Una scritta sul muro si infila nella mia mente e cattura la mia vista: “We can forgive but we cannot forget”. Possiamo perdonare, ma non possiamo dimenticare.
E cosí capisco l’importanza di visitare luoghi simili, di immedesimarmi in vissuti simili, per ricordare il sudore impregnato di dolore di quelle persone ridotte a schiavi, la cui vita perse sapore. Un nanosecondo dopo eccoci contemplare la “Porta di Non ritorno”, dove Giovanni Paolo II chiese un perdono commosso a tutta la popolazione africana per la tratta degli schiavi. Fra le tante case dai colori rossi (storicamente appartenenti ai coloni portoghesi) e gialli (le case degli olandesi), spicca una casa bianca, la dimora di Leopold Sedar Senghor, poeta, filosofo, politico che diventò Governatore.
Mi interessa alquanto la corrente della Negritudine, ovvero la reazione contro l’idea di assunzione passiva di una cultura altra, che comportó invece la riscoperta e la rivalutazione di valori culturali africani, e delle tradizioni locali. Mi attira l’ideale di Senghor, che disse metaforicamente “la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere”. Quindi da forma culturale, stile letterario, la Negritudine diventa strumento di liberazione. Mi colpiscono soprattutto due cose di tutto ció.
La prima è quanto possiamo imparare da questo spirito che animó gli africani nella Negritudine perchè credo ci sia una subdola mancanza di certezze e di valori nella nostra società, seppure sarebbe cosí necessario ricoprirli, affinchè ci aiutino ad attribuire un senso agli eventi, e nel contempo per vivere in pienezza, e comportarci di conseguenza, con maggior consapevolezza.
La seconda cosa che ha suscitato una spinta evocativa in me è il fatto che Senghor abbia avuto come seconda dimora, una casa qui: Gorè è un’isola che si confá perfettamente ad animi poetici anche oggigiorno: con le piante di aloe dappertutto, le bougainvilles come cornice ad ogni vicolo, il profumo di frittelle e le scuole dove sono ammessi solo gli studenti piú talentuosi.
Il tutto nell’insieme crea un’incantevole poesia.
(a cura di Daniela Razzini)