Lorenzo Basile: “Un cielo plumbeo copre Sarajevo al nostro arrivo. Del medesimo colore, primi ad accoglierci, sono i giganti di cemento di Novi Grad, casermoni popolari in perfetto stile sovietico, il cui maestoso grigiore resta immutato attraverso i decenni. Entriamo in città risalendo la Miljacka, fiume lungo il quale Sarajevo si è storicamente sviluppata in periodo ottomano come importante snodo commerciale. Tutto attorno, su entrambe le sponde, la circondano colline, oggi verdi e piene di abitazioni. Le lenti colorate della memoria, tuttavia, le fanno assumere tinte ben più cupe. Fu loro il mortifero abbraccio che soffocò la città durante l’assedio protrattosi quattro lunghissimi anni, dal 1992 al 1996.
Per giungere a destinazione percorriamo il tristemente noto Viale dei Cecchini, la lingua d’asfalto, che insieme al fiume, taglia a metà il centro urbano: oltre 600 persone caddero sotto il fuoco dei tiratori scelti serbi nel tentativo di attraversarlo. È strano, ma mi sento come osservato.
Simbolica è la cosiddetta “Sarajevo meeting of cultures”. Una linea retta tracciata sulla strada che idealmente separa l’Oriente dall’Occidente, identificati questi con l’Impero Ottomano e l’impero Asburgico che succedendosi hanno segnato cinque secoli di storia della città. Stando su questa linea, a seconda di come ci si orienta, si possono osservare due stili completamente diversi: in un attimo si passa, infatti, da una strada in stile Istanbul nel quartiere Bascarsija ad una tipica cornice viennese fatta di viali e cafè. I profumi delle panetterie e i rumori delle piccole botteghe artigiane, invece, si diffondono liberi in ogni vicolo, senza discriminare tra est e ovest.
Tristemente esemplare della follia distruttrice della guerra furono i bombardamenti che per trenta ore si accanirono contro la Vijećnica, il magnifico edificio in stile moresco che ospita la Biblioteca Nazionale e nel cui rogo andarono in fumo centinaia di migliaia di volumi. Non si trattò di cieca violenza, bensì della deliberata volontà di colpire al cuore le radici altrui, cancellando la memoria di secoli di convivenza, inconcepibile per coloro che erano spinti da un becero nazionalismo esclusivista. Camminando per la città ovunque sono ancora ben visibili i fori di proiettile sulle pareti delle case, cicatrici fisiche qua e là coperte con cerotti di stucco. Più difficili da rimarginare sono, invece, quelle che hanno lacerato i cuori delle persone e, di conseguenza, il tessuto sociale della città.
Presso il Centro della Pastorale Giovanile di Sarajevo, di cui siamo stati ospiti, abbiamo avuto la grande opportunità di ascoltare la testimonianza di tre ex-detenuti nei campi di prigionia creati in tempo di guerra. Si tratta di un progetto di Caritas Bosnia e del Catholic Relief Services (Caritas USA) chiamato “Fiducia, riconciliazione e responsabilità” che mira a narrare in modo condiviso quei tragici avvenimenti. Poco importa l’etnia, i racconti sono praticamente tutti uguali: vicini che da un giorno all’altro bussano armati alla tua porta, deportazioni forzate e prigionie disumanizzanti. Contro i pregiudizi e contro le narrazioni dei media embedded ai partiti nazionalisti, loro portano nelle scuole e nei villaggi il loro messaggio di pace, da ricordare e ricostruire, perché sia ponte tra i fossati creati da un odio etnico che non apparteneva alla storia di queste terre, ma che venne piuttosto seminato con scientifica lucidità da classi dirigenti criminali per i loro biechi interessi.
Tanto ci sarebbe ancora da raccontare, ma il tempo e le parole, soprattutto le parole, non sono sufficienti per descrivere le contrastanti emozioni che una città come Sarajevo sa trasmettere. Un luogo dove anche un semplice vecchio tram ha una storia da gridare ad un mondo troppo spesso sordo, che invece, proprio di questi tempi, tanto avrebbe da imparare da questi tragici fatti.”
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