Nel dolore e nell’urgenza di una guerra che avanza, c’è una giovane mamma che lavora e accudisce suo figlio, mettendosi a servizio della collettività. E’ quello che le donne fanno da sempre, non importa che siano madri, figlie a loro volta, sorelle o compagne di vita: proteggere i propri cari, coltivare il bene comune, portare avanti con passione un’attività, un impegno civile, morale o educativo. Quasi sempre, tutte queste cose insieme. E cos’è, il prendersi cura, se non la più semplice, universale e immediata testimonianza d’amore che il genere umano conosca?
Sono passati più di vent’anni, da quel 31 ottobre del 2000 in cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò, all’unanimità, la risoluzione 1325, che riconosceva ufficialmente non solo l’impatto, durissimo, con cui ogni conflitto armato si abbatte sulla popolazione femminile, ma anche il ruolo fondamentale che le donne possono avere nei processi di promozione e mantenimento della pace. Quella consapevolezza, l’ho vista negli occhi delle cittadine ucraine che ho incontrato la settimana scorsa in Municipio. La loro determinazione richiama il coraggio che ci riportano i titoli di cronaca: la signora che affronta l’invasore gettandogli semi di girasole, “perché un giorno possano nascere fiori in un luogo di morte”, le mani generose che offrono un the caldo al soldato russo in cui ciascuna riconosce i lineamenti di un figlio, porgendogli il telefono per chiamare la sua mamma.
Non sappiamo dove siano, ora, queste persone. Forse assiepate tra la folla lungo i binari delle stazioni, in attesa di salire su un autobus che le allontanerà a lungo dal loro Paese, mentre abbracciano – temendo che sia l’ultima volta – gli uomini a cui sono legate. Padri, mariti, fratelli, amici. Figli adulti e ragazzi che dovranno diventarlo da un istante all’altro, nel modo più brutale. Sono gli stessi uomini che non compaiono, nella fotografia, ma ai quali è destinato quel giubbotto ad uso militare.
Il nostro 8 marzo è per tutte loro, che lasciano le loro case e i loro affetti, mentre si aprono i corridoi umanitari ma la gente muore per le strade, colpita mentre cerca una via di fuga. E’ per le bambine che non potranno più crescere, come Alisa, che non aveva ancora compiuto 8 anni e stava giocando nel villaggio di Okhtyrka quando sono esplose le prime bombe. Per tutte le vittime dei conflitti che abbiamo colpevolmente ignorato negli anni, perché più lontani e afferenti a realtà tanto diverse dalla nostra. E’ per le donne che sono in prima linea nella resistenza, nell’assistere, nel prestare soccorso ai feriti, nel caricare camion di aiuti e nell’organizzare i trasporti.
In questi due anni segnati dalla pandemia, abbiamo imparato quanto sia importante esprimere la nostra riconoscenza a chi si fa carico della sofferenza altrui: il pensiero corre ancora una volta a dottoresse e infermiere, alle operatrici socio-sanitarie e assistenziali, a chi indossa una divisa dell’Esercito e delle Forze dell’ordine, di un’associazione di volontariato o della Protezione Civile, alla fatica estenuante affrontata da ciascuna di loro – e da tutte le altre che non ho citato, ma cui sarò sempre riconoscente – con straordinarie riserve di forza e responsabilità.
Ed è a questa umanità generosa e accogliente, che facciamo appello mentre la guerra la sentiamo così vicina da farci davvero paura. Che questa Giornata possa essere occasione per dare voce a ciascuna di loro, alla loro capacità di unire, tessere dialogo e relazioni. Alle donne cui Piacenza saprà aprire le sue porte, a tutte quelle che vorranno dare una mano, che non potranno mai restare inermi e indifferenti al dolore del mondo, cercando sempre di riaccendere la luce quando si fa buio. Grazie di cuore.
Patrizia Barbieri
Sindaco e Presidente della Provincia di Piacenza
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