PIACENZA – La cerimonia ufficiale del Giorno della Memoria si è svolta questa mattina presso il Giardino della Memoria (Stradone Farnese 6).
Oltre al primo cittadino, è intervenuto il prefetto Maurizio Falco.
La cerimonia è proseguita con le parole e la benedizione di don Davide Maloberti e si è chiusa con la consegna, in memoria del signor Luigino Tavani, della medaglia d’onore concessa ai cittadini italiani, militari e civili, deportati e internati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra durante l’ultimo conflitto mondiale ed ai familiari dei deceduti. Luigino Tavani fu deportato e internato nel Campo di prigionia tedesco XII A di Limberg dal 14 settembre 1943 al 26 marzo 1945. La popolazione di questo campo era composta da prigionieri di guerra che si rifiutarono di combattere per la Germania nazista. A ritirare la medaglia sono intervenuti i figli Fulvio e Pierluigi, mentre la consegna è avvenuta a cura del prefetto, del sindaco e presidente della Provincia e del sindaco del Comune di Castelvetro Luca Giovanni Quintavalla.
Per la componente scuola erano presenti: la Consulta provinciale degli studenti di Piacenza, il Consiglio comunale dei ragazzi di Gragnano più i rappresentanti di tutte le classi medie di Gragnano, la 1^ Linguistico “C” del Liceo Gioia con la prof.ssa Graziella Magistrali, educatrici e ragazzi del Centro socio-educativo del Comune di Stradella.
Questo il discorso del sindaco Patrizia Barbieri per la cerimonia “Giorno della Memoria”
“Lavoravo nella cucina delle SS. Dalla finestra aperta, sentii un uomo che intonava un’aria della Tosca. Poco dopo, vidi tre ufficiali che correvano e il canto si interruppe. I nazisti lo fucilarono all’istante. Venni a sapere che era la voce di un famoso tenore del Teatro dell’Opera di Bruxelles i cui familiari, qualche ora prima, erano stati mandati incontro alla morte nelle camere a gas. Ogni volta che riascolto quelle note, su di me scende il buio”.
Iniziava così il racconto di Tadeusz Smreczynski (scomparso nel 2018), deportato ad Auschwitz come prigioniero politico. Dopo 40 anni di doloroso silenzio ha trovato la forza di varcare di nuovo la soglia di quei cancelli che si aprirono, agli occhi del mondo, il 27 gennaio del 1945. La durezza della sua testimonianza scalfisce ogni inaccettabile tentativo di negare l’enormità e l’orrore dell’Olocausto: “Ricordo un gruppo di uomini che urlava, mentre passava un carro sul quale giacevano, gli uni sugli altri, decine di corpi senza vita. Quello in fondo respira, gridò qualcuno, dovete tirarlo fuori! Non possiamo, fu la risposta, ormai è stato depennato dalla lista”.
Questa era la quotidianità, nell’atroce e perfetta organizzazione dei campi di concentramento. L’umanità cancellata. L’esistenza priva di valore. L’indifferenza che inesorabilmente si insinua, perchè a pochi metri di distanza un fumo denso si leva a coprire tutto, in quel tragico disegno di sterminio volto a calpestare l’identità delle comunità ebraiche, a soffocare ogni forma di dissidenza ideologica, a perseguitare e segregare le minoranze e le popolazioni che resistevano in difesa dei propri territori occupati. A eliminare quanti esprimevano – nei tratti somatici, nell’orientamento sessuale, nella specificità e nel valore delle proprie radici culturali ed etniche, nella disabilità o nella malattia – una diversità rispetto all’aberrante modello della supremazia ariana.
A ciascuno di loro, oggi, è dedicata questa cerimonia. Per non dimenticare, e non lo si ripeterà mai abbastanza. Perché al di là di quel filo spinato e oltre i numeri che la Storia ci consegna, ripercorrendo il destino di milioni di vittime innocenti, c’è una verità incontrovertibile e dolorosa: “Gli esecutori di questo immane delitto erano uomini come noi, come tutti”. Le parole di Pietro Terracina, superstite di Auschwitz-Birkenau mancato poche settimane fa a Roma, ci richiamano – nessuno escluso – al dovere morale e civile di onorare la memoria della Shoah ogni giorno. Nel rifiuto delle discriminazioni e della violenza, nella difesa della libertà e del pluralismo, nel rispetto delle differenze, nel contrasto alla cultura dell’intolleranza e del pregiudizio.
Certo, un Paese civile e democratico non può che provare sgomento e vergogna, guardando a un passato segnato dal crimine delle leggi razziali, dal profilo di corpi scheletrici e violati, esibiti nella loro nudità fragile mentre attendevano il verdetto di un appello che – spesso dopo ore trascorse al freddo, in cui molti caddero per gli stenti – decretava la suddivisione tra la speranza e una fine inesorabile. Oggi più che mai, dobbiamo far sì che quei sentimenti ci esortino a non voltare mai lo sguardo dall’altra parte, ma a voler conoscere, con consapevolezza e responsabilità condivise, ciò che è stato. Ad ascoltarne il monito. A farci interpreti, a nostra volta, di un messaggio di pace.
Per le centinaia di migliaia di deportati italiani: perché di religione ebraica, per motivi politici, come prigionieri di guerra. Per le 6000 donne uccise nella camera a gas di Ravensbruck e le decine di migliaia che prima di loro subirono, del lager femminile, le estreme conseguenze. Per i 230 mila bambini e ragazzi che si stima abbiano compiuto quel viaggio verso Auschwitz e Birkenau, provenienti da tutti i Paesi occupati dai nazisti: il 27 gennaio di 75 anni fa, ne erano rimasti 650.
Tra loro le sorelle Andra e Tatiana Bucci, probabilmente sopravvissute perché le credettero gemelle. All’arrivo al campo persero la nonna, condannata subito alla camera a gas. La mamma, costretta ai lavori forzati, ogni sera si infilava rischiando la vita, perché era proibito, tra le baracche destinate ai più piccoli, per sussurrare i loro nomi: “Non voleva che li dimenticassimo o che pensassimo, come volevano indurci a fare i tedeschi, di essere solo un numero”. Quello impresso, per sempre, sul braccio e nel cuore di due bambine per le quali il lager era diventata casa, i cumuli di cadaveri intorno a loro la normalità. “Era terribile”, hanno spiegato in anni recenti, “ma dopo un po’ scatta un meccanismo di difesa”. Al punto che non piansero neppure, quando la mamma non tornò più. L’avrebbero riabbracciata solo un paio d’anni più tardi.
E’ anche per quell’infanzia rubata, così come per chi non ha più voce, che oggi siamo qui con un senso di profonda e sincera partecipazione. Per tutti i testimoni di questa discesa agli inferi dell’umanità. Si diventa liberi solo nel momento in cui si è testimoni attivi di valori fondamentali come il rispetto e la pace.”