Il film, realizzato quasi interamente durante l’anno della pandemia, racconta l’emozionante e singolare storia di Lucy, la donna transessuale più anziana d’Italia. Tra le pochissime sopravvissute al campo di concentramento di Dachau ancora in vita, è testimone diretta di uno dei momenti più bui e tragici della storia del Novecento.
Il documentario, infatti, racconta un pezzo di storia italiana (e non solo) attraverso gli occhi di una persona che, come tante allora, è stata costretta a guardare l’orrore, ma ha saputo resistergli con forza e coraggio ineguagliabili.
Attraverso il racconto lucidissimo di Lucy, il film non solo affronta tematiche attuali come l’identità di genere, ma vuole anche far riflettere sull’importanza di continuare a mantenere intatta la propria personalità, nonostante i soprusi e i continui tentativi della società contemporanea di condannare, umiliare ed eliminare ogni accenno di diversità – “chi l’ha detto che una donna non può chiamarsi Luciano?”, afferma la protagonista della storia nel corso del film.
Botrugno e Coluccini, così, attraverso un affresco intimo e delicato, pongono allo spettatore riflessioni continue e mai scontate. E lo fanno direttamente con la voce di chi certi orrori li ha vissuti sulla propria pelle, perché le voci come quella di Lucy si stanno affievolendo e con loro la memoria collettiva sembra perdersi ogni giorno sempre di più.
C’è un soffio di vita soltanto è un inno alla vita e un elogio della diversità in tutta la sua bellezza. Perché Lucy è l’essenza stessa della diversità, una persona in perenne lotta per l’affermazione della propria identità, in un mondo che ancora oggi, troppo spesso, preferisce odiare piuttosto che comprendere.
I registi, così, realizzano un ritratto colmo di umanità di una donna che, con il suo vissuto, diviene metafora di un’intera comunità fatta di persone che non si arrendono e sanno fare tesoro del dono più prezioso della Storia: la memoria, come unico e insostituibile punto di partenza.
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