Il discorso del sindaco e presidente della Provincia Patrizia Barbieri
PIACENZA – Il discorso del sindaco e presidente della Provincia Patrizia Barbieri:
Nella ricorrenza che rende omaggio, in tutto il mondo, alle vittime della Shoah, celebriamo in forma necessariamente raccolta – ma ugualmente sentita, nella commossa partecipazione di tutte le istituzioni che oggi rappresentano la comunità piacentina – il Giorno della Memoria, ripercorrendo le pagine più buie della nostra storia per condividerne il significato e il profondo insegnamento.
Era la seconda metà del 1944, quando le autorità al comando delle SS di stanza ad Auschwitz decisero di evacuare circa 65 mila prigionieri verso altri lager, interni al Reich tedesco. Incalzati dall’avanzata del fronte orientale, cominciarono a distruggere le prove dei crimini contro l’umanità commessi all’interno del campo di concentramento. Bruciarono documenti ed elenchi di prigionieri, uccisero i detenuti ebrei del Sonderkommando che, tra quelle mura, erano stati testimoni oculari dello sterminio. E, preparandosi a far saltare in aria gli edifici, iniziarono a smantellare fornaci, crematori e camere a gas, che rimasero in funzione almeno sino al gennaio del 1945.
Non riuscirono, tuttavia, a nascondere ogni evidenza dell’orrore perpetrato nel corso degli anni. Le prime tracce, mute e indelebili nell’interrogare ancora oggi la nostra coscienza, giacevano nelle pieghe di centinaia di migliaia di vestiti e scarpe accatastati, tra quasi otto milioni di tonnellate di capelli. Quello stesso “mucchio di riccioli biondi, di ciocche nere e castane” che Joyce Lussu ha descritto di Buchenwald, ricordandoci con amarezza che “servivano a far coperte per i soldati”, perché – nell’agghiacciante pianificazione di ogni dettaglio – “non si sprecava nulla…”.
Quando le truppe sovietiche varcarono la soglia di Auschwitz, nel complesso rimanevano poco più di 7000 detenuti, in gran parte malati, stremati dalla fame, dal freddo e dagli stenti, ma ancor prima dalla brutalità dell’accanimento contro i più deboli. Tra le baracche abbandonate, mentre il fuoco devastava le strutture ancora esistenti, non c’era più acqua né elettricità. Chi ancora restava, cercava disperatamente nei magazzini qualcosa da mangiare, abiti o coperte: molti caddero fucilati dai soldati di guardia, altri perché il loro fisico scheletrico e denutrito non poteva più sopportare neppure il cibo che, finalmente, avrebbe dovuto restituire loro la vita.
Persone ombra, le definì il fotografo polacco che poco dopo la liberazione si addentrò oltre il filo spinato per filmare un documentario: “La guerra – raccontò – mi aveva già preparato al dolore, ai corpi feriti, alla morte. In trincea, scattavo senza che mi tremassero le mani; ma non qui, dove in me cresceva un disagio al quale pensavo di essere immune: solo attraverso il filtro dell’obiettivo, potevo spingermi ad aprire gli occhi su ciò che era intorno”.
Uno spettacolo incredibile per chi lo volle guardare, ha ribadito la senatrice Liliana Segre di fronte al Parlamento Europeo un anno fa, sottolineando che qualcuno non vuole vedere neanche adesso, proprio come allora “le finestre restarono chiuse sul male altrui”. E’ a maggior ragione per questo, che oggi siamo chiamati a ricordare, contro ogni negazionismo. E’ il dovere morale e civile che abbiamo nel nome di tutte le vittime della Shoah, di cui un milione e 300 mila bambini, donne e uomini deportati ad Auschwitz; non più di 200 mila, tra loro, sopravvissero.
Ogni giorno, il Memoriale del campo pubblica i loro volti, per ciascuno una breve nota biografica. Pochi termini, tristemente ricorrenti: “Ucciso dopo la selezione”. Dopo la selezione. Teniamole a mente, queste tre parole, serbiamone l’enormità indicibile, perché è racchiuso qui, nello spazio apparentemente minimo di una piccola frase, il baratro della soluzione finale. L’estrema deriva dell’odio antisemita e dell’ideologia nazista della supremazia razziale, che si abbatté con violenza disumana su ogni forma di diversità: religiosa, politica, etnica. Sulle persone disabili e omosessuali. Sulla ricchezza dell’individualità che richiede sempre e comunque rispetto.
All’impossibilità di accettare, restare indifferenti o sminuire in qualsiasi modo l’aberrazione di ciò che è stato, ha dato voce tante volte, in questi anni, Franco Pesaro, la cui scomparsa abbiamo pianto pochi mesi fa. Fratello più giovane di Tina, morta il 31 dicembre del 1944 nel campo di concentramento di Landsberg, durante la guerra scappò da Castelsangiovanni e trovò rifugio in Svizzera, sottraendosi al destino quasi certo della deportazione e delle violente persecuzioni contro la popolazione ebraica, che già lo avevano costretto, a seguito delle leggi razziali, a non poter più frequentare la scuola. Solo in età matura, come lui stesso spiegava, poté trovare la forza di fare i conti con la sofferenza che si portava dentro, condividendola con gli altri. “Credo che sia giusto lasciare un segno visibile anche nei confronti di chi verrà”, diceva, richiamando il bisogno di conoscere la storia e di trasmetterne l’insegnamento alle giovani generazioni.
Accogliamo quel messaggio e facciamolo nostro, oggi più che mai, nell’onorare il Giorno della Memoria. Perché non venga mai meno la consapevolezza, la coscienza nell’agire, la responsabilità nei confronti degli altri, la necessità di difendere i diritti e la dignità che costituiscono il patrimonio della nostra umanità.