Di seguito l’intervento del Sindaco:
“Un saluto innanzitutto alle ragazze e ai ragazzi delle scuole e ai loro insegnanti, un ringraziamento per la loro presenza e per il percorso fattivo e di ricerca con il quale siete arrivati insieme a noi a questa Giorno del Ricordo. Un saluto alle autorità presenti, al professor de Vergottini che mi ha fatto omaggio di un prezioso studio al quale ha collaborato l’Istituto Geografico Militare. Ve lo segnalo perché è molto importante, credo che sia inedito e merita di essere portato nelle nostre biblioteche bolognesi. Un saluto particolare al Procuratore Aggiunto Valter Giovannini, a Paola Lanzon, Presidente del Consiglio comunale di Imola, a Elisabetta Scalambra, Consigliera delegata della Città Metropolitana, a Galeazzo Bignami, Consigliere regionale che rappresenta la nostra Regione, e all’onorevole Andrea De Maria.
Ringrazio dunque le ragazze e i ragazzi e gli insegnanti del Liceo classico Minghetti di Bologna, dell’Istituto Archimede di San Giovanni in Persiceto e dell’Itis Scarabelli di Imola che si sono cimentati su un tema drammaticamente tornato di attualità: le “Donne di frontiera”, le donne dell’Esodo, quello dall’Istria e dalla Dalmazia del 1947 così dolorosamente simile alla fuga, di oggi, delle donne inseguite dalla guerra e dall’odio. Il mio ringraziamento, come sempre, a Marino Segnan e al professor Giuseppe de Vergottini.
Nel momento in cui le nostre speranze di una globalizzazione pacifica stanno ripiegando su una nuova centralità della geopolitica, e torniamo a logiche di spartizione del mondo, certamente lo dico come Sindaco per quello che vale, fare sparire l’insegnamento della geografia dalle nostre scuole è un grave errore che voglio sottolineare. Non è Google che ci risolve i problemi di come si arriva per esempio ad Ancona, la geografia umana è una disciplina, insieme a quella storica, di cui dovremo assolutamente reimpadronirci.
Non possiamo e non dobbiamo cancellare, rimuovere o cercare di adeguare alle nostre convenienze ciò che la Storia ci ha consegnato – e quindi dobbiamo custodire gelosamente il valore delle scelte, quelle di chi lottò dalla parte degli oppressi e di chi andò dalla parte sbagliata in ogni situazione. E insieme con la stessa determinazione dobbiamo coltivare un sentimento di cittadinanza comune, del nostro essere tutti italiani a partire dal riconoscimento delle ragioni e dei torti, che non possono essere cancellate in un processo di riconciliazione autentica.
Il ricordo dei drammi, delle tragedie, e quindi delle vittime, non può essere un’occasione per ulteriori dissidi e divisioni e il bello di questa cerimonia è che questo spirito è stato colto. Deve affermarsi piuttosto come un momento utile, anche se doloroso per le associazioni, come passaggio di una riflessione che sappia condurci insieme verso la consapevolezza e verso il rifiuto dell’odio e della violenza come metodo di azione politica.
Noi oggi vogliamo ricordare gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, i nostri compatrioti trucidati nelle foibe dal regime comunista. Ci rivolgiamo a loro in questo 10 febbraio che segna i 70 anni dal giorno in cui, dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, i trattati assegnarono quelle terre alla Jugoslavia. E così, proprio quando il mondo e l’Europa tentavano di rinascere dalle macerie materiali e morali della Seconda guerra mondiale, ecco che la disumanità tornava prepotentemente a sconvolgere vite e famiglie. Per questo devono esistere Giornate come quella che qui celebriamo, nelle quali ci si sforza di guardare a ciò che è accaduto non solo con gli occhi di ieri ma anche con quelli di oggi. Ricordo significa tenere nel cuore. Memoria aggiunge che dobbiamo impegnarci civicamente per tenere conto di ciò che la storia ci ha lasciato in eredità.
La tragedia degli italiani uccisi nelle foibe ci parla di qualcosa che è ancora, drammaticamente, nelle vite della nostra civiltà contemporanea: una sfida che dobbiamo vincere e che ci ricorda che identità e convivenza sono concetti che speriamo tutti siano destinati a convivere e ad alimentarsi a vicenda e a non contrapporsi. Identità e convivenza. E ci ricordano, anche per la nostra attualità, che la condizione umana contiene anche una disumanità che attraversa tutti noi e che è da combattere. Ciò che allora divenne tragedia dopo la tragedia, l’ostilità e la vendetta verso i nostri connazionali dopo le indicibili ferite della guerra possono insegnarci che un popolo, noi, possiamo ritrovare e preservare la propria identità senza pensare di annientare quella degli altri. Ecco perché dico che identità e convivenza sono parole – oggi più che mai – destinate a coesistere. Rettifico: dobbiamo impegnarci a farle coesistere. Riconoscere se stessi per riconoscere gli altri è un passaggio fondamentale anche per le nostre vite personali. Così i confini non diventano barriere o frontiere, o muri, o filo spinato, ma confini: limiti condivisi. Rifiutando l’indifferenza e il silenzio che troppo spesso coprono il sopruso, il rifiuto, la mortificazione di ogni sentimento di umanità.
Settant’anni fa l’Italia che si rialzava dopo il fascismo e la guerra si trovò ad affrontare l’esodo forzato dei profughi dalla Jugoslavia: chi non fu ucciso fu cacciato in nome di un totalitarismo. Ricordiamoci di loro, di noi, e pensiamo dunque e inevitabilmente a chi oggi chiede accoglienza e rispetto. Ogni popolo porta su di sé sempre le stesse ferite: nelle nostre dobbiamo trovare il coraggio di guardare anche quelle degli altri. E’ l’unica maniera per lenire, per impedire che il sangue e la violenza, lo sciovinismo, il nazionalismo, la riedizione di frontiere che ci separano, non divengano più un destino ineluttabile.
Oggi, sui crinali e su quelle foibe non passa più come sappiamo un confine di filo spinato, passa un tratto che unisce i Paesi della vecchia Europa a quelli che sono entrati a far parte dell’Unione da pochi anni. E’ un’Unione talvolta difficile e contraddittoria. E’ un’Unione che affidiamo molto al coraggio delle giovani generazioni, perché vada avanti, ma è un’Unione che dobbiamo salvare, insieme a essa il progresso, la pace, il rispetto, contro le follie nazionaliste e totalitarie, per la nostra libertà e la nostra democrazia. E quindi quando ci ritroviamo, cito testualmente le parole di Marino Segnan, dobbiamo ribadire che siamo qui perché siamo tutti italiani. E ribadire – ho apprezzato molto l’intervento del nostro Vice Presidente Marco Piazza, che sottoscrivo – che è vero che a Bologna ci fu una reazione sbagliata all’arrivo dei profughi, ma ricordiamo anche, perché è quello che conta, che immediatamente dopo ci fu un’altra reazione e molti esuli di allora decisero di stare nella nostra città, e di questo vi ringrazio”.
Questo l’intervento del vicepresidente Marco Piazza in apertura della seduta solenne del Consiglio comunale dedicata al Giorno del Ricordo:
“Signor Sindaco, signori assessori, signori consiglieri, autorità civili e militari, gentili ospiti, buongiorno a tutti, grazie della vostra presenza e benvenuti a questo consiglio comunale solenne per celebrare il giorno del Ricordo che quest’anno cade proprio nel settantesimo del trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, che impose all’Italia sconfitta la rinuncia alle città di Zara, Fiume e quasi tutta l’Istria. Ringrazio della sua presenza il presidente dell’ANGVD (associazione nazionale Giulia, Venezia e Dalmazia, sezione di Bologna) Marino Segnan e il Giuseppe de Vergottini, professore emerito dell’Università di Bologna che è anche autore di un imponente e dettagliato lavoro sulla geografia e la toponomastica storica di quelle terre.
Un saluto e un sincero benvenuto anche ai ragazzi del Liceo Minghetti e alla loro professoressa Brizzi, dell’Istituto Archimede di San Giovanni Persiceto, professor Poluzzi, agli studenti dell’Istituto Agrario Scarabelli Ghini di Imola con la professoressa Martelli, all’istituto Tanari Manfredi con il professor Mascaro e all’ITIS Belluzzi Fioravanti con la professoressa Giorgi. È molto importante la vostra presenza e l’ufficio di presidenza ci teneva davvero ad avervi qui numerosi. Grazie di aver accolto il nostro invito.
Insieme a voi vogliamo che questa celebrazione non sia l’evento isolato di un giorno all’anno. Un momento in cui ci troviamo, facciamo dei bei discorsi e poi ognuno va a fare altro, ma non volgiamo che sia questo. Ma questo Consiglio solenne vuole essere un elemento di un percorso continuo. Un’occasione in cui ribadiamo l’impegno ad approfondire e divulgare la verità su un pezzo di storia italiana che per troppo tempo è stata taciuta, distorta o negata.
Tra l’altro questo è un pezzo di storia particolarmente attuale che parla di confini, di esodi, di popolazioni costrette ad abbandonare le proprie terre, costrette ad attraversare il mare con mezzi di fortuna, ad intraprendere viaggi pericolosi. Alcuni elementi vedete sono di stretta attualità.
Una storia che è di grande aiuto quindi per affrontare il presente e il futuro che ci aspetta, che ci mette in guardia dal non ripetere pericolosi errori.
Eppure di queste vicende non si è parlato per molti anni. Io ho studiato nel millennio scorso e vi assicuro che non c’era nulla sui libri di storia. Non si raccontava di questa tragedia vissuta da decine di migliaia di italiani che sono stati uccisi o costretti ad abbandonare le loro case dalla violenza del regime nazionale comunista jugoslavo e a pagare, vittime innocenti, il peso e le conseguenze della guerra d’aggressione intrapresa dal fascismo. Una tragedia che conta circa 10.000 morti gettati nelle foibe e 350.000 italiani costretti ad abbandonare per sempre la loro terra, la loro casa, le loro radici, la loro cultura.
Oggi invece ci troviamo qui anche in virtù di una legge nazionale. La legge 92 del 2004 dal titolo: “Istituzione del Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale”. In base a questa legge, di cui vi leggo dal primo comma, “la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del Ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Una legge quindi che sana un silenzio di troppi anni su una storia di cui si era parlato fino ad allora troppo poco e con molta disinformazione. Una legge che sancisce definitivamente la rottura di una cortina di oblio forzato che copriva le vicende del confine orientale e degli italiani della Venezia, Giulia e Dalmazia. Una legge che comincia a recuperare 60 anni di disinformazione, ma soprattutto finalmente dà un segnale di vicinanza delle istituzioni agli esuli e ai parenti di chi ha vissuto questa tragedia taciuta. Addirittura una legge nazionale. Quanti altri capitoli dei vostri libri di storia sono oggetto di una legge nazionale? Chiedetevi perché c’è un pezzo di storia che viene prima tenuta praticamente segreta e poi diventa addirittura oggetto di una legge che ne promuove il ricordo. Da un estremo all’altro.
La riposta a questa domanda ve la lascio come tema di confronto con i vostri professori e vi porterà a ragionare sul ruolo del dittatore comunista Tito durante la guerra fredda, sulle convenienze internazionali, e poi su come l’Italia rifiutasse di ammettere di aver perso la guerra, in generale vi troverete a ragionare sull’intreccio tra politica e verità storica.
Oggi comunque siamo qui e possiamo ricordare, capire e fare tesoro di quello che queste vicende ci insegnano per affrontare il non facile futuro.
Vorrei ricordare un episodio in particolare accaduto proprio a Bologna che ci mostra la potenza della propaganda deviata e della cattiva informazione e come questa possa aggiungere danno ad una tragedia.
Era il 18 febbraio 1947, si fermò nella stazione di Bologna un treno che trasportava gli esuli che erano sbarcati in Italia ad Ancona due giorni prima. Avevano abbandonato tutto, la casa, la terra, il lavoro, le tradizioni, su quel treno c’erano anche anziani e bambini assetati.
La falsa propaganda aveva bollato tutti quelli che fuggivano da quelle terre come fascisti e la famosa accoglienza e solidarietà di cui Bologna ha fatto sempre un punto d’onore, venne drammaticamente meno.
Alcuni bolognesi presenti in stazione impedirono alla croce rossa di portare aiuti e conforti ai loro connazionali stremati. Il prezioso latte per i bambini venne persino rovesciato sulle rotaie e il treno fu costretto a ripartire senza nessun conforto a chi viaggiava all’interno.
Su quei treni c’erano tutte le classi sociali, operai, contadini, impiegati, commercianti, tra questi anche partigiani che avevano combattuto affianco agli stessi jugoslavi di Tito, era un popolo costretto all’esilio non per motivi di ceto o di appartenenza politica, ma per una follia nazionalista.
Ricordiamoci sempre quell’episodio, come bolognesi e come italiani, di cui i nostri concittadini dovettero poi pentirsi quando conobbero la verità. Ci invita alla prudenza nelle valutazioni, a non emettere condanne affrettate. Ad approfondire bene le situazioni nella loro reale complessità.
Un amaro insegnamento che noi bolognesi abbiamo ricevuto da quel treno che è passato alla storia come Treno della Vergogna.
Come ufficio di Presidenza del Consiglio comunale, abbiamo convintamente deciso, insieme alla presidente Guidone, di sostenere alcune delle iniziative promosse dall’associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e ringrazio il presidente del comitato di Bologna Marino Segnan per il grande lavoro che svolge insieme alla sua associazione.
Siamo convinti che la storia del confine orientale permetta di capire meglio le dinamiche della contemporaneità. Una terra dove per secoli c’era stata una convivenza pacifica che l’avvento delle aberranti ideologie nazionalistiche ha rotto trasformando di colpo il vicino in nemico generando la tragedia delle foibe e la tragedia di un esodo.
In particolare quindi abbiamo sostenuto progetti con le scuole tra cui la borsa di studio che è stata consegnata ad alcuni studenti proprio poco prima di questo consiglio e anche progetti di formazione dei docenti delle scuole superiori a cui teniamo particolarmente perché la motivazione degli insegnanti è fondamentale.
Concludo leggendovi un breve brano che trovate esposto nella mostra sulle donne in Istria e Dalmazia in sala borsa, che vi invito a visitare. Si svolge nel 1949, siamo su una barca. Oggi forse lo chiameremmo barcone. C’è un papà con una bambina. La bimba si chiama Marisa ed è piccola e gracile. La barca si sta allontanando da loro paesino costiero che è vicino a Rovigno per raggiungere l’altra sponda dell’adriatico e un futuro incerto. Le loro amate colline, le familiari case in pietra chiara, gli ulivi, i pini si stavano allontanando piano piano e svanendo alla vista. La loro casa già non si vedeva più e sapevano che non l’avrebbero mai più rivista, che stavano abbandonando tutto.
‘Marisa si stringe alla gamba del papà e chiede:
– Papà, dove andiamo?
– Via. Lontano
– E perché andiamo lontano?
– Perché non siamo più padroni a casa nostra. Ci hanno preso per il collo, ci hanno tolto anche il fiato. Non si può più vivere in questo modo. Hanno fatto di tutto per farci scappare. Non li vogliono noialtri italiani’.
Quante piccole Marisa ci sono ancora oggi? Certamente troppe. Ho concluso.
Grazie a tutti”.
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