PIACENZA – Discorso per Giorno del Ricordo
Alla presenza delle istituzioni, dei rappresentanti delle associazioni combattentistiche e, idealmente, dell’intera comunità piacentina, celebriamo oggi il Giorno del Ricordo, istituito nella ricorrenza di una data che segnò un’ulteriore, drammatica svolta nella storia tormentata del confine nord-orientale del nostro Paese. Il 10 febbraio del 1947 venne infatti firmato, a Parigi, il trattato di pace che sanciva il passaggio, sotto l’egida dell’allora Jugoslavia, delle città costiere dell’Istria occidentale, di Fiume, delle isole del Quarnaro e di Zara.
Da Pola, già colpita al cuore dalla strage di Vergarolla nell’agosto del ’46, se ne andarono 28 mila abitanti, la quasi totalità della popolazione. Ma furono più di 300 mila, nel corso degli anni, i connazionali costretti a lasciare i loro luoghi d’origine e le loro case, abbandonando tutto per non disperdere le proprie radici, per non dover rinnegare quell’identità che sentivano profondamente propria. “Italiani due volte”, come li ha chiamati il giornalista Dino Messina nel libro che raccoglie le loro testimonianze di esuli in patria.
Lo erano per nascita, per cultura, per comunanza linguistica; lo furono, poi, nella tenacia della scelta, nel coraggio con cui rinunciarono a ciò che avevano di più caro per sfuggire all’oppressione del regime di Tito. Nella coerenza e nella volontà con cui tennero fede al proprio senso di appartenenza nonostante i pregiudizi, l’indifferenza ostile, la mancanza di riconoscimenti da parte dello Stato e della politica, che troppo a lungo non seppe garantire loro la dignità dell’accoglienza e di una piena integrazione.“Andammo verso il porto, ma prima il papà volle chiudere la porta di casa”, raccontava la sua storia di bambino, in un documentario Rai, un testimone dell’epoca, che con la famiglia se ne andò lontano guardando il mare. “Avevamo un’unica chiave. Non dimenticherò mai il gesto della mano con cui, quella stessa chiave stretta nel palmo, sembrò cancellare in un istante il nostro passato, la vita che avevamo conosciuto fino a quel giorno”. Per molti, quel drammatico passaggio significò il trasferimento in campi profughi “di cui – rievoca l’antropologo Piero Delbello – ci si porta addosso l’esperienza per sempre. L’odore di canfora, di abiti stantii, di capelli non lavati, non certo per scarsa igiene ma perché nelle fasi più dure potevi fare la doccia non più di una volta alla settimana”.
Da quel percorso così intimamente doloroso sono emersi talenti e personalità che hanno portato alto il nome dell’Italia nel mondo. Enzo Bettiza, Ottavio Missoni. Campioni come Abdon Pamich – allievo del nostro Pino Dordoni – o Nino Benvenuti. “Come figlio di esuli – sottolinea ancora Delbello – mi identifico nelle molte biografie di successo, ma anche nel poveretto che non riuscì a risollevarsi e finì impiccato a un albero nel campo”. Quante furono, quelle esistenze calpestate? Anch’esse non una, ma due volte: prima dalla persecuzione, poi dal silenzio colpevole e omertoso che ammantò questa pagina di storia, inghiottendola in voragini così simili alle fenditure di quelle terre carsiche cui oggi dedichiamo, invece, un silenzio diverso. Intriso di rispetto, commozione e consapevolezza, nel nome di tutti i Martiri delle Foibe.
Non si può più tacere, l’enormità di quel disegno di pulizia etnica, politica e razziale che il comunismo balcanico perpetrò con particolare violenza all’indomani dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 e nella primavera del ’45. Mentre in tutta la Penisola si guardava al futuro con speranza, dopo la Liberazione, tra le Alpi e le coste giuliano-dalmate gli italiani continuavano a morire.
Gettati vivi nelle cavità del terreno, verso la cui sommità venivano spinti in gruppi, ammanettati insieme col fil di ferro; solo i primi tre o quattro della fila fucilati affinché, cadendo, trascinassero gli altri con sé. Portati via nella notte da squadre delle milizie titine, scomparsi nelle acque gelide del mar Adriatico, una pietra a trascinarli sul fondo; o rinchiusi per settimane in edifici che in tempo di pace erano state caserme e scuole, trasformati in centri di detenzione in cui i prigionieri venivano percossi e seviziati, il corpo delle donne violato e offeso. Come accadde, con brutalità indicibile, a Norma Cossetto, alla cui memoria intitoleremo nei prossimi giorni un’area verde alla Besurica.
La ferocia dell’epurazione si abbatté non solo contro i militanti politici o i collaborazionisti del Governo italiano, ma colpì indistintamente tutti coloro che venivano considerati non allineati all’egemonia slava: uomini di chiesa e laici di fede cattolica, partigiani italiani e membri del CLN, donne, anziani e bambini. Uomini che avevano onorato la propria divisa: agenti di Polizia, Carabinieri, Finanzieri. Come i 97 militari delle Fiamme Gialle che prestavano servizio a Trieste, le cui spoglie – tra le circa 350 vittime che il Corpo pianse nell’orrore di quegli anni – furono rinvenute nella Foiba di Basovizza. Indotti a consegnare le armi con l’inganno, vennero catturati e uccisi senza pietà, simbolo di quell’italianità e di quell’amor patrio che con ogni mezzo si volevano soffocare.
La memoria, però, non si può cancellare, né farne strumento di parte. E’ il fondamento comune della nostra coscienza di popolo e Paese democratico, che crede nel principio costituzionale di difesa della pace. Per questo, oggi, è importante dare voce alle vittime delle Foibe e alla tragedia dell’esodo giuliano-dalmata: perché la storia ci insegni a non coltivare mai l’odio, ma la civiltà.