“Come avviene in ogni ricorrenza che rievoca le pagine più buie del nostro passato, la Storia con la S maiuscola si intreccia – in una sofferenza così profondamente umana – alle storie di vita della gente. Talvolta bastano poche, semplici parole a raccontarle, come quelle pronunciate 77 anni fa sul ciglio della foiba di Terli, poco distante da Barbana nella Laguna di Grado: “E’ mia figlia”. La voce strozzata dal pianto non una, non due, ma tre volte: perché Albina, 21 anni e un bambino in grembo, Caterina (19) e la 17enne Fosca sono morte così, insieme, nel ventre della terra. A riconoscerne le salme riesumate in un giorno d’autunno, accanto al maresciallo dei Vigili del Fuoco, c’era anche il loro papà, Antonio Radecchi, piegato dal dolore al punto da non potersi più reggere in piedi.
Arrestate nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre, vennero fatte oggetto di ripetute umiliazioni, il loro corpo violato e infine buttate – due di loro ancora vive – in quella fenditura del terreno, a 125 metri di profondità, insieme ad altre 23 persone. Erano operaie in una fabbrica di Pola, sulla via del ritorno si fermavano talvolta a parlare con alcuni militari della Regia Aeronautica, di stanza nella zona. Fu quella, agli occhi dei loro aguzzini, la colpa che dovevano espiare, in una spirale di odio etnico e ideologico che avrebbe provocato, tra il 1943 e il 1947, migliaia di vittime. Percosse, torturate, inghiottite nel buio freddo del Carso e delle sue spaccature, annegate nella vastità dell’Adriatico, fucilate, deportate nei campi di concentramento jugoslavi o costrette – come fu per 350 mila nostri connazionali – all’esodo dalle terre giuliano-dalmate in cui erano nate.
A ciascuno di loro è dedicato il Giorno del Ricordo, che la nostra Repubblica ha istituito per legge, nel 2004, ponendo fine al colpevole silenzio che troppo a lungo ha relegato, “nell’altra metà della storia”, la ferocia delle persecuzioni che dovettero subire – anche dopo la Liberazione del Paese e la fine della guerra – gli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. Non solo obbligati a lasciare le proprie case e ciò che avevano di più caro, ma spesso accolti con ostilità durante quel lungo, doloroso percorso, che avrebbe condotto molti di loro nei campi profughi allestiti dal Friuli alla Sicilia. Al porto di Venezia si rifiutarono di scaricare i loro pochi bagagli, alla stazione di Bologna il treno che li trasportava fu bersagliato dai sassi, quasi ovunque vennero insultati con disprezzo: la solidarietà, come ha sottolineato lo storico Guido Rumici, venne meno perché non si conoscevano i veri motivi che avevano causato l’allontanamento di un’intera popolazione.
Caddero infatti, sotto il regime di Tito, non solo coloro che venivano considerati oppositori politici, ma anche le fasce più fragili e inermi tra i civili, così come numerosi sacerdoti, gli stessi membri del CLN che non appoggiavano l’egemonia del comunismo slavo, i cattolici che manifestarono sempre la coerenza ai propri valori, i militari ed esponenti delle forze dell’ordine chiamati a servire e difendere la Patria che amavano, alla quale avevano giurato di essere fedeli.
Come il carabiniere Paolo Bassani, che la sera del 18 maggio 1945 affidò a uno dei suoi carcerieri un biglietto per rassicurare la moglie Ernesta: “Non pensare a male, io sto bene”. Di lì a poche ore, insieme ai 17 colleghi dell’Arma che come lui erano stati rinchiusi in cella dai nazionalisti slavi che avevano occupato Gorizia, venne caricato a forza su un camion, diretto verso l’altipiano. Verso l’abisso della foiba di Zavnj. Ernesta – come raccontò in un articolo il giornalista Lorenzo Bianchi – lo avrebbe aspettato per dieci anni, accendendo ogni sera un lumino sul davanzale della finestra. Purtroppo invano, come accadde alla maggior parte delle famiglie che in quella primavera del ’45 – di libertà e lenta, progressiva rinascita nel resto del Paese – non seppero più nulla dei loro cari. Furono 940, le persone arrestate dalle milizie titine a Gorizia, nel susseguirsi sistematico delle retate: tra loro, non solo i Carabinieri che presidiavano la stazione di via Barzellini, ma altri 665 – vittime della pulizia etnica e del totalitarismo comunista – non sarebbero mai più tornati a casa.
“Le sofferenze patite – ebbe a dire un anno fa, accanto al capo dello Stato sloveno, il presidente Mattarella – non possono essere negate. Perché ogni comunità custodisce la memoria delle proprie esperienze più strazianti e le proprie ragioni storiche, ma è dal riconoscimento reciproco che riparte il dialogo e l’amicizia, tra le persone e le culture”.
Nel nome di questi stessi princìpi, della democrazia e della pace che la cerimonia odierna ci esorta a perseguire, coltiviamo allora l’intensità del ricordo, l’omaggio commosso e sincero ai martiri delle foibe e a tutti gli italiani che, nella drammatica quotidianità dell’esodo forzato dalle proprie terre d’origine, troppo a lungo non poterono trovare il conforto del riconoscimento, del dialogo e dell’appartenenza a una Nazione che oggi dà voce, con coscienza e responsabilità, alla memoria negata e svilita.
Richiamando le parole con cui un altro presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, per la prima volta onorò ufficialmente questa ricorrenza, guardiamo a un avvenire che si può e si deve consolidare, con profonda consapevolezza, sulle macerie del passato: “L’Italia riconciliata nel nome della democrazia, ricostruita dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale, anche con il contributo di intelligenza e di lavoro degli esuli istriani, fiumani e dalmati, ha compiuto una scelta fondamentale. Ha identificato il proprio destino con quello di un’Europa che si è lasciata alle spalle odi e rancori, che ha deciso di costruire il proprio futuro sulla collaborazione fra i suoi popoli basata sulla fiducia, sulla libertà, sulla comprensione”. Nel Giorno del Ricordo, è innanzitutto questo, che dobbiamo a chi ha pagato con la vita le aberrazioni dei conflitti e dei regimi dittatoriali.”
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