Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, seduta solenne del Consiglio comunale

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L’intervento della vicesindaca Emily Clancy

BOLOGNA – Oggi si è tenuta la seduta solenne del Consiglio comunale dedicata alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Di seguito l’intervento della vicesindaca Emily Clancy.

“Gentili consigliere, gentili consiglieri, graditi ospiti, rappresentanti, autorità civili e militari, Sindaco e colleghi di Giunta, voglio innanzitutto ringraziare la presidente Manca per avere organizzato questa seduta solenne del Consiglio comunale che ci ha permesso di andare alle origini della data del 25 novembre. Con lei e la responsabile per il Piano per l’Uguaglianza Simona Lembi in questi giorni abbiamo raccontato l’attività che fanno i nostri enti per il contrasto alla violenza di genere sul territorio, così oggi mi concentrerò sul portato di questa data, ieri, oggi e domani, come condiviso fino a pochi istanti fa con le consigliere – che parimenti ringrazio e con cui c’è un confronto quotidiano.

Come molte ricorrenze, anche questa affonda le sue radici in una storia: la storia delle sorelle Mirabal, la storia di tre vite spezzate e della vita che ne ha raccolto il testimone. Una storia di impegno, lotta e organizzazione femminile contro la dittatura.
Questo momento ci invita dunque a ricordare che ogni violenza, ogni voce zittita, ogni prevaricazione di genere è una storia, una donna, una vita. E nel contempo a comprendere la forza concreta e simbolica delle reti femminili e femministe, che unendo le nostre vite le trasforma in resistenza, moltitudine e potenza.
Donna, vita, libertà. Penso alle donne iraniane, alle curde, alle donne palestinesi e israeliane, solitarie voci di pace, alle donne latino americane.
Penso a noi.
Sì anche a noi, che siamo libere, emancipate, in posizioni di potere, eppure ancora impegnate a difendere il sentiero tracciato dalle donne che sono venute prima di noi, quel sentiero in cammino perché nessuna conquista è data per sempre e non solo i numeri, agghiaccianti, delle violenze, ma anche le parole rabbiose – scritte e pronunciate – da certi uomini, molti in posizione di potere, ci dicono che ancora oggi la rivolta delle donne a qualcuno fa paura.
Penso che la ferocia che si esprime in ogni femminicidio, consumato in una relazione privata e di intimità, abbia la stessa identica radice della repressione contro i movimenti femminili e femministi a qualsiasi latitudine. Una radice dura e resistente fatta di paura del cambiamento, paura di cedere potere, paura di perdere certezze e punti di riferimento.

Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere, ha detto Elena Cecchettin, sorella di Giulia. E non avrebbe potuto dire meglio. Le sue parole, racchiusa nella lettera aperta pubblicata pochi giorni fa, sono chiare, dirette, cristalline e colpiscono a segno. Sono tanto ben centrate che hanno suscitato la rabbia scomposta e immediata di certa mascolinità che non ha alcun pudore a mostrare in pubblico il suo volto sguaiato e feroce, non ha remore ad attaccare la persona, più che le idee, il suo corpo, i suoi indumenti, il suo aspetto, la sua intimità, le sue scelte.
E non ha pudore a negare quello che è sotto gli occhi di tutte, quello che accade, a pena della vita di più di 100 donne solo quest’anno, solo in Italia: viviamo ancora in una società patriarcale e abbiamo bisogno, anzi vogliamo, un cambiamento.
E il cambiamento deve riguardare tutte. Non una di meno. Lo hanno gridato in questi giorni migliaia di donne nelle piazze di tutta Italia. Credo che in molte ne conserveremo, negli occhi e nel cuore, la forza e l’incredibile potenza generativa.
Come il cambiamento deve riguardare tutte le donne, così il cambiamento deve riguardare tutti gli uomini.

In questi giorni ho spesso sentito, alcuni opinionisti o politici, accostare e tentare di confondere, furbescamente, i termini colpa e responsabilità, per dire “no, non è anche colpa mia, io non ho fatto niente e non farei mai male a nessuno”.
Beh… voglio dirvi che non siete affatto furbi, siete solo immobili, aggrappati con le unghie e con i denti all’immagine che avete di voi stessi, incapaci di cambiamento.
Colpa e responsabilità non sono affatto la stessa cosa. Quando agli uomini si dice “siete responsabili” non si tratta di un’accusa e non si sta parlando della responsabilità penale, che è appunto personale, ma di responsabilità in senso
lato. Non è un’accusa, al contrario: si tratta di offrire una possibilità. La possibilità di essere responsabili.
Si sta dicendo: uomini, siate responsabili del cambiamento, attori protagonisti di questo cambiamento.
Proprio la capacità o meno di cogliere questa possibilità fa, credo, la grandissima differenza tra uomini responsabili e uomini colpevoli.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin è in qualche modo esemplare, per tante ragioni su cui vorrei provare a soffermarmi.
Innanzitutto perché la reazione che ha suscitato si è discostata almeno in parte dal copione tipico che abbiamo visto svolgersi molte volte. Troppo spesso quando la violenza di genere si manifesta con il suo volto più nero, quello dello stupro o del femminicidio, e quei fatti riescono a diventare notizia, cosa non scontata, riuscendo quindi a squarciare il silenzio e l’indifferenza e trovare cittadinanza nel dibattito pubblico – ricordo che Giulia Cecchettin è la vittima 101 di femminicidio quest’anno – ma i numeri sono purtroppo in continuo aggiornamento, dopo di lei ci sono già state almeno altre due vittime Patrizia Vella Lombardi e Rita Talamelli – il dibattito prende due strade sbagliate.

La prima: la vittimizzazione secondaria, ovvero la colpevolizzazione della vittima di cui vengono indagati comportamento, stile di vita, abiti, costumi
affettivi e sessuali, relazioni, spesso con intento morboso e teso a screditarne la credibilità.

La seconda: la ricerca dell’alterità in chi compie la violenza, l’esclusione della violenza dalla società, la non accettazione della società patriarcale in cui siamo pienamente inseriti. Così si parla di raptus, di forte stress, di incredulità di parenti e vicini di casa “era un così bravo ragazzo”, di gesto inspiegabile e inaspettato. Mentre la realtà è ben diversa e moltissimi femminicidi sono preceduti da tanti e chiari campanelli di allarme.
Si è visto di recente anche in due casi che hanno altrettanto scosso l’opinione pubblica: gli stupri di gruppo di Palermo e Caivano.
Il caso di Palermo di quest’estate è stato molto spettacolarizzato certo per l’efferatezza della violenza che ha subito la giovane vittima ma anche per la tossica reazione da parte di molti uomini ai fatti così come per la vittimizzazione secondaria che ha dovuto subire la vittima, diventando così vittima due volte.
Mentre i dettagli più morbosi e cruenti venivano discussi e dissezionati, mentre centinaia di migliaia di uomini cercavano il video dello stupro di gruppo nei canali telegram, moltiplicando quella violenza ogni volta, dai social ai salotti televisivi ci si permetteva di commentare la condotta della ragazza addirittura colpevolizzandola: com’era vestita, se l’era cercata, se non ci si ubriaca magari il lupo lo si evita.
Che cosa comporta questo sulla donna che ha subito violenza, ma anche su tutte le altre donne. Sappiamo quant’è importante denunciare, ma rendiamoci conto di quanto sia difficile per una donna che già deve trovare il coraggio di denunciare e di cercare di uscire da una situazione di violenza. È già difficile per tanti fattori, economici, sociali.
Il tavolo interistituzionale sulla violenza nelle relazioni di intimità del nostro Comune ha ben evidenziato quanto sia pervasivo il fenomeno delle ritrattazioni, denunce che vengono riviste o ritirate dalle donne per la pressione sociale che subiscono dal contesto intorno a loro. È difficile perché spesso c’è anche una violenza economica, psicologica, c’è una difficoltà a raggiungere un’autonomia abitativa, non c’è parità salariale. Ma a tutto questo dobbiamo aggiungere che anche nel momento in cui si trova il coraggio di denunciare quanto si è subito si deve mettere in conto che la propria condotta verrà dissezionata dall’opinione pubblica, dalle aule di tribunale, dai media. Che pericoloso effetto deterrente che ha quindi la vittimizzazione secondaria delle donne sulle donne.
La seconda strada sbagliata che spesso percorre il dibattito pubblico è la ricerca dell’altro, del mostro, anche in qualche modo la concentrazione del dibattito sulla violenza nello spazio pubblico da parte di sconosciuti rispetto alla sua incidenza sui dati.
Voglio essere molto chiara, come ho già avuto modo di dire in quest’aula non c’è nessuna sottovalutazione del fenomeno di cui l’Amministrazione si sta occupando nella sua specificità.
Però se vogliamo sradicare una cultura di potere, dominio, possesso, violenza psicologica, economica, fisica, la prevaricazione dell’uomo sulla donna, come possiamo estraniarci dalla violenza, distanziare il violento dalla nostra società?
Pensiamo che la risposta possa essere solo l’inasprimento delle pene, la criminalizzazione e la ricerca dell’alterità negli autori di violenza, che abbiamo risolto il fenomeno strutturale della violenza di genere quando ne abbiamo punito il singolo autore?
Il primo passo deve necessariamente essere ammettere che siamo in una società patriarcale, da parte di donne e uomini. Perché come dicono da sempre i movimenti femministi a partire da Non Una di Meno gli stupratori, gli uomini autori di femminicidio non sono mostri, non sono malati, sono figli sani del patriarcato. L’ha ribadito anche Elena Cecchettin, sorella di Giulia, proprio in questi giorni, con estrema dignità e lucidità e scatenando invece reazioni irricevibili da parte di tanti uomini in posizioni di potere.
Non c’è il branco, non c’è lo straniero, non c’è il mostro. I dati ce lo dicono, la violenza di genere è strutturale ed endemica e come tale tristemente presente nella società indipendentemente dalla dimensione di classe e capacità economica e sociale, provenienza geografica, abilità o disabilità, età ecc.
Lo ripeto, si vuole indicare la violenza come agita da chi è lontano e distante da noi, oggi lo straniero, domani il raptus del mostro, ma la violenza è strutturale, è ovunque intorno a noi, soprattutto agita da chi conosciamo. O capiamo questo o non saremo mai in grado di sconfiggere il fenomeno.
Per questo dico che in qualche modo il femminicidio di Giulia Cecchettin è esemplare.
Ci mostra come la violenza di genere sia ben inserita nella nostra società: agita da un giovane verso una giovane, qualcuno potrebbe dire altamente scolarizzati, pienamente inseriti nella società.
Per una volta il dibattito pubblico che ha seguito i fatti non ha preso le strade sbagliate, e grandissimo merito è quello della famiglia di Giulia a partire dalla sorella Elena che ha chiamato Filippo Turetta figlio sano del patriarcato, ha inquadrato il portato politico alto – inteso proprio come Politica della polis – del lutto privato che sta vivendo, il più terribile, l’assassinio della sorella da parte di un uomo.
Le sue parole ci danno la possibilità di un’elaborazione collettiva del lutto ma soprattutto inquadrano quanto ancora c’è da fare.
Nessuno discute la repressione del reato e il grande lavoro di forze di polizia e magistratura quando vi è da seguire una denuncia e assicurare alla giustizia l’autore di violenza.
Ma insieme al contrasto della violenza di genere quando si è manifestata se vogliamo avere speranza di sradicarla ci serve concentrarci altresì sull’educazione alle differenze, alla affettività, al consenso, alla sessualità, all’equità, a partire dalle scuole. Abbiamo bisogno di incrementare il reddito di libertà perché sia una possibilità reale di fuoriuscita dalla violenza, le politiche per l’autonomia abitativa, la parità salariale.
Di ragionare sulla natura collettiva e strutturale del patriarcato e su quanto quindi debba essere responsabilità della collettività, di donne e uomini, sconfiggerlo.
Concludo, tornando alla ricorrenza del 25 novembre e alla memoria delle sorelle Mirabal: quanta differenza determina la reazione a un femminicidio. Così è stato per le sorelle Mirabal, così dev’essere oggi. Pertanto il mio invito a tutte e tutti, è che sia 25 novembre ogni giorno e che il 25 novembre sia patrimonio di tutte e tutti”.