Fioravanti, il cenacolo ritrovato

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Fino al 16 giugno in esposizione negli spazi del Museo della Città l’affresco su tela che Fioravanti realizzò per la Congregazione Sorelle dell’Immacolata di Miramare

stemma-colori-comune-riminiRIMINI – Sarà in esposizione fino al 16 giugno negli spazi del Museo della Città Fioravanti, il cenacolo ritrovato, «una vasta invenzione sospesa alla fase della sinopia – spiega Massimo Pulini nel catalogo – all’affiorare di parvenze che annunciano le figure senza descriverle… È un’incompiutezza che ha qualcosa di letterario, come una poesia che non vuole dire, chi siamo e cosa vogliamo, lasciandosi dietro un tracciato di frasi tronche, di omissioni eloquenti. Eppure, anche svuotato del carico abituale, il racconto evangelico arriva a destinazione e porta con sé un peso perfino maggiore, quello di una interrogazione direttamente rivolta all’osservatore, dunque al fedele».

Con queste parole lo storico dell’arte Massimo Pulini rende nel saggio in catalogo la sostanza della ricerca interiore ed espressiva che segna l’intera opera di Ilario Fioravanti (Cesena 1922-Savignano sul Rubicone 2012) e in particolare il grande affresco recentemente ritrovato, al centro della mostra che fino al 16 giugno si terrà al Museo della Città di Rimini, dove l’opera dialogherà con quelle del pittore cinquecentesco, molto attivo a Rimini e in Romagna, Bartolomeo Coda.

L’opera, di grandi e insolite dimensioni (quattro metri per due), rappresenta l’Ultima cena ed è un affresco su tela che Fioravanti realizzò per la cappella interna al complesso della Congregazione Sorelle dell’Immacolata di Miramare, fondata da don Domenico Masi.

L’occasione venne data all’architetto Fioravanti mentre portava a termine la costruzione del grande edificio, con chiesa annessa, della Congragazione, opera cominciata nel 1966 e conclusa nel 1974. Come ricorda Luca Fioravanti, nipote dell’artista e “scopritore” del grande affresco che da tempo era caduto nell’oblìo, poiché egli «aveva necessità di ritrarre soggetti “dal vero”, nell’affresco vari personaggi hanno il volto di quei muratori che lavoravano alla costruzione dell’edificio». Al centro vediamo Pietro, che mostra la mano con l’anello del Pescatore, mentre l’apostolo alla sua destra ha il volto del fondatore della Congregazione, don Masi.

Accanto all’opera ritrovata, sono esposte una piccola Crocifissione e un autoritratto, prestato dalla moglie di Fioravanti, Adele Briani, datato anch’esso 1970. Tutte e tre le opere sono ad affresco, ambito che Fioravanti ha molto praticato lasciando alcune decine di opere. Dopo la grande retrospettiva del 2015 sulla scultura e il disegno di Fioravanti, curata da Maurizio Cecchetti a Rimini e suddivisa fra Castel Sismondo e Museo della Città, questa nuova mostra rappresenta un primo parziale tentativo di approfondire un aspetto dell’opera di Fioravanti ancora poco indagato.

Di fronte al grande affresco dell’Ultima cena – scrive in catalogo Maurizio Cecchetti – «subito viene in mente il mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna. Anche lì troviamo la tavola semicircolare a cui siedono i tredici. Pietro è al fianco di Cristo, secondo uno schema derivato dall’iconografia romana». Ma rispetto al mosaico di Ravenna – nota Cecchetti – qualcosa non torna: il centro della tavola è occupato da due grossi pesci, mentre nell’opera di Fioravanti vediamo il calice e il vassoio con l’agnello arrostito: «È a Sant’Angelo in Formis, vicino a Capua, agli affreschi della chiesa ricostruita nell’XI secolo per volere dell’abate Desiderio di Montecassino, che Fioravanti sembra ispirarsi. La struttura leggera in legno dello stibadium, il lettino semicircolare usato per cene all’aperto (come i nostri gazebo) che sostituì nelle usanze romane il triclinium, e la cornicetta a semicerchi, sono visibili anche nell’affresco di Fioravanti. Il semicerchio interno dello stibadium corrisponde alla tavola che i romani usavano per il vino, il cillibantum, sul quale a Formis come a Miramare si vedono il calice e l’agnello». Questa e altre invenzioni si trovano nel Cenacolo che Fioravanti ha voluto concepire come una “Cena all’antica” che guarda ai primi secoli dell’iconografia cristiana e si discosta da quelle che discendono in qualche modo dal Cenacolo di Leonardo, del quale ricorrono i cinque secoli della morte.