«L’emigrazione è la miglior scuola di dialettica. I profughi sono dialettici più perspicaci. Sono profughi in seguito a dei cambiamenti, e il loro unico oggetto di studio è il cambiamento. Essi sono in grado di dedurre i grandi eventi dai minimi accenni, […] e hanno occhi acutissimi per le contraddizioni. Viva la dialettica!».
Memore della propria esperienza dell’esilio, Bertolt Brecht così fotografava, con la consueta lucidità, il rapporto fra discontinuità esistenziale e necessità della metamorfosi, individuando nel soggetto strappato al proprio sistema di abitudini e sicurezze il propulsore ideale del cambiamento politico e culturale.
«Un vero testo della crisi, – scrive Lino Guanciale – un vero testo generato da uno stato d’emergenza. Una rappresentazione vivida della balìa cui sono soggette le illusioni di stabilità della civiltà occidentale, soprattutto quando esse servono, coscientemente o meno, a nascondere sotto il tappeto le miserie e le fragilità di un mondo abituato a disprezzare la dialettica come strumento di rigenerazione della democrazia. Un testo che molto ha da dire, crediamo, a noi orfani della fine della storia, cui la pandemia ha consegnato l’epifania di una dimensione di precarietà le cui radici – lo stiamo apprendendo con forse troppo colpevole sorpresa – sono in realtà molto più profonde di quanto potesse sembrare.
Un orizzonte problematico senza precedenti, cui rispondere con le più varie forme di resistenza estetica e culturale messe a disposizione dalla complessità del linguaggio teatrale, proprio come ci pare avvenga al Brecht di quest’opera».
La lettura di Guanciale è accompagnata da una partitura di musiche, a cura della violinista Renata Lackó, scelte tanto dal repertorio classico della musica colta europea e da quello più brechtiano, quanto dalle sonorità “erranti” della tradizione Yiddish, a significare acusticamente il complesso paesaggio esistenziale e culturale dell’incontro fra i due personaggi.
Negli anni dell’esilio in Nord Europa, in fuga dal potere nazifascista che corre inarrestabilmente verso il proprio culmine espansivo, Brecht attraversa la fase probabilmente più alta e autentica della propria vocazione di poeta e drammaturgo politico, in cui scrive alcune delle sue opere più conosciute. Sono gli anni, infatti, de Il romanzo dei Tui, Terrore e miseria del Terzo Reich, Madre Coraggio e i suoi figli, Vita di Galileo, La resistibile ascesa di Arturo Ui, Il cerchio di gesso del Caucaso, ovvero dei testi in cui la lotta contro le forze disumane della Storia si fa più cruda ed efficace.
Di questa stagione è figlio anche Dialoghi di profughi, terminato nel 1940: un ritratto dello sradicamento come topos esistenziale, un omaggio alla marginalità come matrice di elevazione filosofica e politica. Nei Dialoghi si confrontano due voci “sospese”, quella di uno scienziato e quella di un operaio, identificati con un ironico compendio della lotta di classe, “Quello alto” e “Quello basso”: due “piccoli uomini” di fronte alla Storia, appartenenti a fronti opposti del conflitto sociale pre-esilio e ora accomunati da un destino forzatamente erratico. Si incontrano la prima volta in una stazione, non-luogo simbolico della reciproca sorte, e casualmente ingaggiano un primo confronto sul rapporto, non a caso, fra l’uomo e il proprio passaporto. Da quel momento inizia una spirale dialettica che li conduce, in giorni e scenari diversi, a toccare – quando con cinica ironia, quando con accalorata partecipazione – le più varie questioni etiche, estetiche e sociali connesse al mondo da cui vengono e a quello, che si interrogano possa essere, il futuro. Si alternano, dunque, commenti ai modelli educativi egemoni, rilievi personali sulla vita nella dimensione della fuga perenne e notazioni umoristiche sul rapporto fra politica e pornografia, critiche all’ideologia superomistica dominante e osservazioni tese a smascherare le falle di sistema di un mondo convinto, ebbro della propria volontà di potenza, del proprio destino di eterna crescita.
Il finale non declina un epilogo preciso delle rispettive biografie, ma lascia aperta qualunque prospettiva, dalla salvezza alla rovina definitiva, nel solco, però, di una comunanza di intenti, sogni e visioni.
«I due profughi, così diversi, così lontani in condizioni storiche “normali”, si avvicinano finalmente liberi da differenze di classe e discriminanti razziste di ogni genere, – continua Guanciale – dialogano radicalmente e cambiano, crescono, nel momento della sospensione assoluta delle loro esistenze precedenti, nel momento in cui quasi tutto è perso a parte la volontà, o necessità, di costruire germi comunitari attraverso il linguaggio. Questo fa del testo un luogo in cui di fatto il teatro viene praticato come strumento di rigenerazione, come spazio di mutamento e maturazione attraverso l’incontro, come luogo dell’amplificazione decisiva del potere rivoluzionario dell’ascolto.
Fattori che ne rendono non tanto l’attualità al tempo dell’attuale pandemia, quanto la forza strategica e l’autorevolezza. Il teatro non come eredità o ispirazione, non come nostalgia. Ma come valore d’uso. Per tutti».
Lino Guanciale
Nato ad Avezzano (L’Aquila), si diploma all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico nel 2003 e ottiene il Premio Gassman. La sua carriera d’attore inizia in teatro con Gigi Proietti in Romeo e Giulietta. In seguito collabora con Franco Branciaroli, Luca Ronconi, Walter Le Moli, Massimo Popolizio e Michele Placido, che dopo averlo diretto in Fontamara, lo chiama per il film Vallanzasca-Gli angeli del male. Per Claudio Longhi, è tra i protagonisti di La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht (2011-2012), recita nella Compagnia del Ratto d’Europa (2013-2014) e lavora al progetto di teatro partecipato Carissimi Padri … Almanacchi della “Grande Pace” (1900-19015). Nel 2009 debutta al cinema con Io, Don Giovanni di Carlos Saura. Seguono, tra gli altri, i lavori con Renato De Maria, Andrea Molaioli, Pappi Corsicato, Francesca Staasch. È nel cast di To Rome with Love di Woody Allen. Nel 2011 esordisce in televisione con Il segreto dell’acqua. Nel 2015 vince il premio Flaiano come attore rivelazione dell’anno. Lo stesso premio gli viene riassegnato nel 2017 come co-protagonista del film-documentario Un’avventura romantica di Davide Cavuti. Nel 2016 è il narratore/alter-ego di Pasolini nello spettacolo Ragazzi di vita con la regia di Massimo Popolizio. Nel 2018 è vincitore del premio ANCT e del premio UBU per il suo ruolo nello spettacolo teatrale La classe operaia va in paradiso con la regia di Claudio Longhi. Nel 2019 firma la sua prima regia teatrale, Nozze di Elias Canetti. Sempre nel 2019 conduce il documentario L’Aquila 3:32 – La generazione dimenticata, dedicato al terremoto che ha colpito L’Aquila nel 2009. In televisione è protagonista di molte fiction Rai di grande successo tra le quali: L’allieva, La porta rossa, Non dirlo al mio capo, Che Dio ci aiuti.
Renata Lackó
Definita dalla critica «una violinista che provenendo dalla rinomata scuola ungherese si apre a esperienze musicali multiculturali», Renata Lackó è nata a Budapest e ha studiato presso l’Accademia Ferenc Liszt di Budapest. Si è perfezionata con Giuliano Carmignola, Gyorgy Pauk, Gabor Takacs-Nagy, Denes Zsigmondy, Mark Kaplan, David Golub, Aurèle Nicolet, Alain Meunier. Si è laureata in Storia dell’arte e Musicologia nell’Università di Osnabrück.
Suona con l’Orchestra Giovanile dell’Unione Europea, l’Orchestra Mondiale della Gioventù, Jeunesses Musicales, Nationalfilharmonie Ungherese, Orchestra da Camera di Basilea, Orchestra da Camera di Berna e con l’Orchestra Sinfonica di Berna. Tra il 2002 e il 2007 fa parte dei primi violini dell’Orchestra Sinfonica di Osnabrück. Durante la sua carriera orchestrale collabora con musicisti come Sir Yehudi Menuhin, Daniel Harding, Vadim Repin, Albrecht Mayer, Nicolas Altstaedt, Christoph Poppen, Dmitrij Kitajenko, Dezso Rànki, Emanuel Ax, Giuliano Carmignola.
Si esibisce nelle sale più celebri del mondo: Prag Dvorak Hall, Mosca Sala Caikovski, Kiev Philharmonie, Minsk Grande Sala del Concerto, London Royal Albert Hall, Berliner Filharmonie, Wiener Musikverein, Rotterdam De Doelen, Manila Cultural Center of the Philipines, Sejong Cultur Center, Lucerna KKL.
Svolge attività cameristica in Ungheria, in Svizzera, in Germania, in Polonia, in Republica Ceca in Israele e in Italia.
Insegna violino presso il Conservatorio di Berna, presso la Furman University e presso l’Istituto Superiore di Studi Musicali “Rinaldo Franci” a Siena.
È un’appassionata di musica Klezmer, musica popolare e Jazz che suona in diverse formazioni.
Nel 2019/2020 inizia a collaborare con Emilia Romagna Teatro Fondazione per la produzione La commedia della vanità di Elias Canetti, regia Claudio Longhi, come violino solista in duo con cimbalom. Lo spettacolo è stato rappresentato al Teatro Argentina di Roma, al Teatro La Pergola di Firenze, al Piccolo Teatro di Milano, al Teatro Storchi di Modena e in Svizzera al teatro LAC di Lugano.
Nel giugno 2020 per la riapertura dei Teatri dopo il lockdown cura la parte musicale e l’esecuzione da vivo per il monologo di Lino Guanciale sul testo di Bertolt Brecht Dialoghi di profughi, sempre per ERT Fondazione e in onda su Rai Radio3.
Teatro Arena del Sole
via Indipendenza, 44 – Bologna
Sala Leo de Berardinis
dal 6 all’11 ottobre 2020
da martedì 6 a venerdì 9 ottobre ore 21.00 | sabato 10 ottobre ore 20.00
domenica 11 ottobre ore 16.00
Dialoghi di profughi
di Bertolt Brecht
con Lino Guanciale
arrangiamenti e musiche dal vivo Renata Lackó
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
prima assoluta
con il sostegno di
durata: 1 h
Informazioni:
Teatro Arena del Sole, via Indipendenza 44 – Bologna
Prezzi dei biglietti: da € 7 € a € 15
Da quest’anno sarà possibile utilizzare i biglietti in formato elettronico. Acquistando biglietti e abbonamenti on-line o telefonicamente si riceverà una conferma via mail che potrà essere utilizzata per entrare in sala senza necessità di passare dalla biglietteria.
biglietteria tel. 051 2910910 – biglietteria@arenadelsole.it | bologna.emiliaromagnateatro.com
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