“Adil Belakhdim era un sindacalista. Non ricordo di quale sindacato. Perché non me ne importa niente.
So – come tutti – che aveva 37 anni, che venerdì 18 giugno stava partecipando a un presidio, insieme a una ventina di addetti alla logistica, fuori dalla sede logistica di LIDL a Biandrate, in provincia di Novara, quando è stato travolto e ucciso dall’autista di un camion che ha deciso di forzare i picchetti messi in piedi dai manifestanti.
L’autista aveva discusso con i lavoratori perché il presidio bloccava il passaggio del mezzo prima di decidere di forzarlo, investendo mortalmente Adil – che è stato trascinato dal mezzo per una decina di metri – e ferendo altri due manifestanti.
Poi è fuggito, venendo bloccato in autostrada dai carabinieri: l’accusa è di omicidio stradale, resistenza e omissione di soccorso.
Alberto Guidetti, de Lo Stato sociale, si è chiesto dove siano gli hashtag di sensibilizzazione, quando che crepa un lavoratore. Dove gli opinionisti digitali, quando che crepa un lavoratore…Dove l’indignazione… Bebo, hai ragione: dove sono tutti quanti, quando un lavoratore crepa in questa maniera?
Nel nostro piccolo, dopo aver partecipato al presidio convocato venerdì pomeriggio, abbiamo aspettato questo consiglio per parlare.
E oggi parlo come consigliere di CC per Bologna, ma anche come studioso e insegnante di diritto del lavoro e come cittadino di una repubblica fondata sul lavoro.
Vedete, la drammatica morte di Adil, insieme alla rabbia suggerisce molte cose. Spetta a noi dirle forte, perché lui non può più farlo. Vorrei ricordarne almeno 3.
1. Quello di Adil è un delitto del lavoro. Durante una lotta, sacrosanta. Una lotta dura, certo, come talvolta ha da essere il conflitto collettivo sui luoghi di lavoro. Lo dico a quanti chiosano puntualizzando che era un sindacalista dei Si-Cobas che partecipava a un “blocco delle merci”, che ossia a una forma di protesta di dubbia legittimità. Ebbene, i conflitti di lavoro non sono un pranzo di gala. E i lavoratori della logistica che, all’alba di un venerdì, bloccano le merci, non si esercitano in un merletto o in un ricamo. Tanto che la stessa giurisprudenza del lavoro, come avvenuto per i picchetti, ha ritenuto in tante circostanze plausibile e legittima quella forma di lotta, se attuata senza violenza, nelle forme della resistenza passiva. Gigi Mariucci lo diceva sempre: se ti trovi a passare da un paese dove non si avverte il rumore dei conflitti sul lavoro e non si odono i fischietti dei manifestanti, non fermarti: è un paese che non conosce la democrazia.
2. In secondo luogo, quella di Adil Belakhdim non è soltanto una morte sul lavoro tra le centinaia che si consumano ogni anno in Italia: è anche l’apice di un vortice di violenze dirette e indirette che i lavoratori degli appalti stanno subendo da tempo, come risposta alla richiesta di maggiori tutele. Badate, non sono il solo a dirlo. Lo ha detto, in un dossier del 26 maggio 2021, persino la Commissione di Garanzia per lo sciopero nei SPE, spiegando che “il dumping salariale, i ritardi nel pagamento delle retribuzioni, i cambi appalto”…rappresentano “causa di insorgenza o aggravamento dei conflitti collettivi” in moltissimi settori, sia che si tratti di appalti privati, sia che si tratti di appalti pubblici.3. Da ultimo, quella di Adil Belakhdim non è soltanto una morte sul lavoro. È un omicidio nel settore della logistica: il più strategico, al tempo dell’economia digitale. Ma anche quello a più elevato tasso di sfruttamento delle maestranza. Quel comparto che ci ha consentito di sopravvivere alla pandemia. Come scrivono in un appello diffuso oggi Vando Borghi e Devi Sacchetto, ‘nei mesi del lockdown anche le nostre vite sono interamente dipese dal lavoro di magazzinieri, spedizionieri e facchini che ci hanno consentito di fronteggiare l’emergenza rimanendo a casa. E’ il lavoro vivo delle donne e degli uomini impiegati nel settore della logistica ad aver infrastrutturato e consentito il trasferimento delle nostre attività quotidiane e la didattica a distanza dei nostri figli nelle abitazioni private e sulle piattaforme, sono loro ad aver rifornito i punti vendita della grande distribuzione alimentare. (…) Come lavoratrici e lavoratori del mondo della ricerca – concludono i colleghi – crediamo che sia parte del nostro mandato istituzionale alzare il velo che nasconde la violenza e l’ingiustizia della fabbrica-mondo dietro la brillantezza delle vetrine dei consumi globali e digitalizzati, rendere esplicite le relazioni che legano le nostre forme di vita con quelle di coloro che nel sottoscala della fabbrica-mondo fanno più intensamente esperienza di quella violenza e di quella ingiustizia, produrne consapevolezza nelle nuove generazioni con cui interagiamo nella nostra pratica scientifica e didattica e contribuire a creare le condizioni perché si rigeneri e si allarghi l’intelligenza della solidarietà’.
E aggiungo che mi pare anche il nostro compito, come consigliere e consiglieri”.
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