BOLOGNA – Di seguito gli interventi d’inizio seduta del consigliere Francesco Errani (Partito Democratico).
“Alunni disabili a scuola, oltre alla presenza è fondamentale l’inclusione
La scuola italiana è stata la prima a chiudere per l’emergenza Covid-19, il 22 febbraio 2020. È stato un anno durissimo, dovuto alla violenta pandemia che ha travolto le nostre esistenze, che ha provocato tanti lutti, sofferenza e dolore.
È passato un anno e continuiamo a chiudere, riaprire e richiudere ancora le nostre scuole. E, purtroppo, continua il senso di disorientamento e di frustrazione del mondo della scuola (studenti, insegnanti, famiglie). Oggi intervengo nuovamente, sugli alunni in situazione di disabilità a scuola.
La situazione legata all’emergenza Covid-19 ha aumentato enormemente la trasformazione delle differenze in disuguaglianze. L’inclusione scolastica non può limitarsi all’abbattimento delle barriere architettoniche e agli insegnanti di sostegno: le conseguenze sulla didattica della pandemia stanno aumentando le disuguaglianze in relazione alle situazioni personali e sociali, confinando gli alunni disabili nelle classi di sostegno o in una relazione duale, e di conseguenza anch’essa escludente.
La proposta di una modalità didattica praticabile in sicurezza, una didattica per piccoli gruppi, offre una metodologia di insegnamento e apprendimento partecipativa e, quindi, meno addestrativa; una didattica inclusiva, in quanto richiede un apporto ed il conseguente riconoscimento del contributo di ciascuno; una didattica solidale, offrendo l’opportunità di scoprire che il gruppo può avanzare e realizzare dei risultati solo se ci si aiuta reciprocamente. Una didattica per gruppi di lavoro è un’esperienza che non limiterebbe la sua utilità ai bisogni dei bambini disabili, ma anche ai compagni non disabili, molto più della DAD o della scuola della trasmissione dei saperi. Una scuola in piccoli gruppi permetterebbe la ricerca e a partecipazione attiva.
La nota 662 del 12 marzo 2021 del Ministero dell’Istruzione, esprime come: “… la condizione dell’alunno con bisogni educativi speciali non comporta come automatismo la necessità di una didattica in presenza, potendo talora essere del tutto compatibile con forme di didattica digitale integrata salvo diverse esplicite disposizioni contenute nei già adottati progetti inclusivi. Ciò premesso, laddove per il singolo caso ricorrano le condizioni tracciate nel citato articolo 43 le stesse istituzioni scolastiche non dovranno limitarsi a consentire la frequenza solo agli alunni e agli studenti in parola, ma al fine di rendere effettivo il principio di inclusione valuteranno di coinvolgere nelle attività in presenza anche altri alunni appartenenti alla stessa sezione o gruppo classe – secondo metodi e strumenti autonomamente stabiliti e che ne consentano la completa rotazione in un tempo definito – con i quali gli studenti BES possano continuare a sperimentare l’adeguata relazione nel gruppo dei pari, in costante rapporto educativo con il personale docente e non docente presente a scuola”.
Bologna ha una tradizione importante sull’inclusione delle bambine e dei bambini in situazione di disabilità. Anni di lavoro e costruzione, in cui la classe non distingueva differenze tra maestri e insegnante di sostegno.
Pensare oggi, nella nostra città, a bambine e bambini soli in classe, credo sia inaccettabile, una vergogna.
Gentile Presidente, ho chiesto un’Udienza conoscitiva per un approfondimento con l’Ufficio scolastico territoriale/regionale. È importante che il Comune di Bologna, che ha competenza per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, garantisca a tutti gli studenti con bisogni educativi speciali (BES) una didattica inclusiva, purtroppo non garantita senza il collegamento con il resto della classe. Dobbiamo garantire, come richiede il Ministero dell’Istruzione, l’affiancamento agli alunni disabili di un piccolo gruppo di altri studenti (anche a rotazione) per evitare il senso di isolamento e esclusione.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, 27 anni fa l’assassinio a Mogadiscio
Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, un commando uccideva l’inviata del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, che si trovavano in Somalia per documentare la guerra. A distanza di 27 anni, non si è ancora arrivati a conoscere la verità per la morte dei due giornalisti italiani in Somalia, a causa di depistaggi, complicità e omissioni.
Luciana Alpi, morta nel 2018, non hai mai smesso di lottare per la verità e la giustizia per la figlia. Grazie alla sua determinazione e al suo coraggio, la madre di Ilaria Alpi ha alzato il velo di ipocrisie e omissioni, comprese le conclusioni poco chiare delle due Commissioni parlamentari d’indagine.
Luciana si rese conto che la morte della figlia era legata al suo lavoro di giornalista, all’inchiesta che avrebbe potuto mettere in difficoltà il governo italiano e il mondo della nostra Cooperazione. Ilaria Alpi stava denunciando il traffico di armi e di rifiuti tossici tra la Somalia e l’Italia.
Il 4 ottobre 2019, il giudice per le indagini preliminari di Roma, ha rigettato, per la seconda volta, la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma disponendo una nuove indagini.
Dopo 27 anni, credo importante non solo ricordare Alpi e Hrovatin, ma anche continuare a chiedere alle Istituzioni italiane di conoscere la verità sul loro omicidio e sui mandanti di un crimine vergognoso per il nostro Paese”.