“Mia mamma lavorava alla Pertite dal 1935, era giovane, aveva appena trent’anni. Ricordo che quando noi figli la baciavamo aveva la pelle amara, probabilmente a causa delle polveri della fabbrica. Ma era così bella: quando l’hanno trovata aveva su un vestito blu a righe rosse che ricordo ancora, probabilmente era a fine turno e aspettava di uscire… è morta alla sera, per un’emorragia interna”.
Così, l’anno scorso, la signora Bianca Rossi raccontava alla stampa locale cosa significasse, per lei, prendere parte a questa cerimonia e rendere omaggio alle vittime della Pertite. Nella ricorrenza solenne che segna l’80° anniversario della tragedia, credo non si possano evocare parole più autentiche e cariche d’amore, capaci di restituirci il fermo immagine di una vita intera e del momento in cui tutto si spezza: perché la voce della signora Bianca, che mi permetto di citare oggi, è quella dei 39 bambini e ragazzi, tutti sotto i quindici anni, che in quel pomeriggio d’estate rimasero orfani, perdendo sotto le macerie della fabbrica, sventrata da due forti esplosioni ravvicinate, ciò che avevano di più caro.
E’ alla consapevolezza di quel dolore, che oggi facciamo appello, nell’impegno a onorare responsabilmente, con profondo rispetto, le donne e gli uomini che l’8 agosto del 1940 caddero inermi, indifesi mentre svolgevano il proprio lavoro. Nel boato violento e inappellabile delle deflagrazioni, nel fragore dei vetri infranti, nell’eco delle urla, per loro ci fu solo silenzio. Non più il conforto di un abbraccio a fine turno, non più il sorriso dei colleghi a stemperare la fatica. Non più la dignità e l’orgoglio di un salario su cui poggiavano, per sé e per la famiglia, speranze e progetti per il futuro, coperto anch’esso all’improvviso dalla coltre fitta di fumo e detriti che avvolse, in pochi istanti, i capannoni, le officine, le case e i quartieri circostanti.
Era un equilibrio fragile, quello delle catene di montaggio in cui si maneggiava un materiale esplosivo e altamente instabile – la Pertite – per il caricamento dei proiettili. Già il 27 settembre del 1928, 13 operai avevano perso la vita e tre persone rimasero ferite in modo grave (altrettante più lievemente), a seguito di uno scoppio, triste presagio della devastazione che avrebbe colpito al cuore la polveriera – e un’intera città – agli albori dello schieramento italiano nel secondo conflitto mondiale, causando 47 morti e 795 feriti, cui le ricerche condotte in questi anni da Stefano Pareti hanno permesso di attribuire nome e cognome.
“Noi fummo vittime, le prime, di una guerra nefasta”, è inciso nel marmo. Vittime di una fiorente industria bellica e di responsabilità mai accertate nel tempo, per acclarare le quali confidiamo possa avere presto riscontro l’iniziativa parlamentare con cui l’onorevole Foti, un anno fa, ha chiesto di rendere pienamente accessibili e consultabili i documenti riguardanti la vicenda, depositandone una copia presso l’Archivio di Stato di Piacenza. Perché coloro cui oggi tributiamo un pensiero sincero e commosso sono il simbolo, per noi tutti, di una pagina di storia che non possiamo dimenticare, ma anche di una realtà, quella attuale, di fronte alla quale siamo chiamati a scegliere con convinzione di non restare indifferenti.
E’ il volto di un’Italia che nel 2019 ha registrato 1089 caduti nei cantieri, nelle aree produttive o in itinere verso la propria occupazione, con una media di circa 1700 infortuni al giorno e quasi 5000, in un anno, nella nostra provincia, come hanno sottolineato le organizzazioni sindacali in questi giorni. E’ lo spettro di una nazione in cui persistono sacche di precarietà, economia sommersa e caporalato che non solo disonorano i princìpi costituzionali della Repubblica fondata sul lavoro, ma nella sistematica inosservanza delle regole mettono a rischio, quotidianamente, la salute e l’incolumità di chi vede calpestato il proprio diritto alla tutela della sicurezza. Come ha rilevato il presidente Mattarella nel suo messaggio istituzionale ad Anmil, nell’ottobre scorso, “sono stati compiuti passi in avanti nella legislazione, nella coscienza comune, nell’organizzazione stessa del lavoro. Ma tanto resta da fare per colmare lacune, per contrastare inerzie e illegalità, per sconfiggere opportunismi”.
Un monito che tocca le nostre coscienze, perché è solo non tacendo gli errori e le pieghe del presente, che possiamo coltivare degnamente la memoria del passato, delle donne e degli uomini che in quell’agosto del 1940 varcarono per l’ultima volta i cancelli della fabbrica. Come i loro colleghi 12 anni addietro. Come i 262 minatori – 136 dei quali emigranti italiani – inghiottiti da un incendio nel ventre della terra a Marcinelle, in Belgio, l’8 agosto del 1956, in nome dei quali si celebra oggi la Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo.
Nel nostro ritrovarci qui, c’è la volontà di ribadire che Piacenza non dimentica. Un intento che rinnoviamo anno dopo anno, condividendo i sentimenti di chi, della tragedia della Pertite, è stato testimone, così come l’impegno di chi lotta per denunciare le iniquità e gli abusi, la mancata applicazione delle normative e delle misure di prevenzione. Serbiamo, come un insegnamento prezioso, il ricordo di ciò che è stato, come se questo potesse aiutarci a scrollare, da meccanismi e ingranaggi che troppo spesso si inceppano, la stessa polvere che in quel pomeriggio d’agosto, alle 14.42, cadde come una pioggia fuligginosa sui tetti e sulle strade, facendo breccia nella corazza apparentemente inviolabile dello stabilimento militare.
Come quella fabbrica, non siamo invincibili, ma profondamente vulnerabili nella nostra umanità. Non disperdiamola, allora, lasciamo che emerga oggi in tutto il suo calore, nella solidarietà con cui ci stringiamo anche alle famiglie di Sasko Atanasov e Andrea Gazzola, che in questi giorni hanno perso la vita sul nostro territorio mentre svolgevano il proprio mestiere. L’abbraccio solido e sincero della comunità piacentina si estende, idealmente, a tutti coloro che devono confrontarsi con l’enormità della perdita, quando l’ultima frase che ci si è scambiati è quella che ripetiamo ogni mattina come un automatismo, prima che la porta si chiuda per sempre: “buon lavoro”.
Alle vittime della Pertite, alle vittime del lavoro e alle vittime civili di guerra, perché l’8 agosto del 1940 non sarà mai solo una data, ma un solco nell’anima.
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