Il racconto del concerto al Naima Jazz Club di Forlì
FORLÌ – Non finisce mai l’attenzione, l‘amore, la passione per il mitico trombettista jazz americano CHET BAKER.
Ora vive anche all’interno delle pagine della tesi di laurea di Daniele Odorici, giovane cantante studente del Conservatorio G.B. Pergolesi di Fermo.
Il giovane studente cantante, appassionato della musica e della voce di Baker, ha svolto un intenso lavoro di studio e di ricerca per la sua tesi specialmente raccogliendo testimonianze dirette tra chi aveva suonato con lui, aveva collaborato, aveva ospitato Chet nel proprio jazz club per un concerto memorabile, come successo, ad esempio, a Michele Minisci, allora direttore artistico del mitico Naima Jazz Club di Forlì.
E dal lungo, lacerante ed appassionante ricordo di Chet che Michele Minisci fa nel suo libro di qualche anno fa “ La notte che si bruciò il Jazz”, con le prefazioni di Renzo Arbore e di Carlo Lucarelli, Daniele Odorici prende diversi spunti per la sua tesi.
Come quando la sera del concerto, l’1 marzo del 1984, la band era già al Naima club e il flautista Nicola Stilo, il contrabbassista Enzo Pietropaoli, il pianista Michel Grailler, stavano facendo il sound check ed attendevano con ansia l’arrivo di Chet che era molto in ritardo. Si è poi saputo che era uscito dall’albergo dove alloggiava per bere un bicchiere di Sangiovese, il tipico vino romagnolo, in un piccolo bar nei paraggi, oggi Petit Arquebuse, e solo un grande colpo di fortuna permise al direttore artistico del club di rintracciarlo e portarlo al concerto.
Quell’avvenimento è curiosamente citato nella tesi con la pubblicazione anche della targa che è stata affissa nella parete esterna del locale a perenne ricordo del passaggio del mito, come si può notare nella foto allegata.
Oppure col racconto di alcuni momenti di quel memorabile concerto che registrava dei lunghi assoli dei musicisti, forse per far riposare Chet, che era ancora provato dalle sue tragiche vicissitudini legate all’uso di droghe, anche se ora stava attraversando un buon periodo, ma che non appena rientrava nel pezzo, ti sembrava di sentirlo suonare come se avesse ancora accanto Gerry Mulligan o Stan Getz, e di rivederlo sui palchi di tutto il mondo, osannato come il miglior rappresentante di quella lost generation che aveva tracciato negli anni Cinquanta un nuovo corso musicale nella storia del jazz, il suggestivo cool jazz. Chet suonò per tutto il tempo seduto su una sedia, con le gambe a cavalcioni, con quegli stivaloni da cow boy che ogni tanto riflettevano un luccichio strano dalle borchie argentate incollate sui lati, e quella sera cantò più del solito, cinque brani invece delle solite tre canzoni di ogni suo concerto, con una memorabile “My Funny Valentine” e una struggente “ Forgetful”, forse per farsi perdonare dell’ansia e dell’angoscia che aveva provocato con la sua breve e innocente “fuga” dai ferrei orari organizzativi del concerto.
Bravo Daniele Odorici per questo intenso a appassionante lavoro sul mitico Chet Baker!