Parma

“Acqua per la vita” il 5 novembre a Parma

Relatori e organizzatori del convegno

Esperti a confronto, al convegno organizzato da 30 Club Lions, riuniti sabato presso l’Auditorium “Carlo Gabbi” Crédit Agricole Green Life

PARMA – Esistono segnali circostanziati che gli eventi siccitosi che hanno colpito il nostro territorio negli ultimi anni si possano ripetere sempre più frequentemente in futuro e rappresentino una delle sfide principali con cui tutte le filiere produttive del nostro territorio, particolarmente vocato all’agroalimentare, dovranno confrontarsi.

I Lions dei distretti Ib2 Lombardia e 108 Tb Emilia Romagna, da sempre sensibili al tema dell’acqua, quale risorsa fondamentale per la vita, hanno invitato un gruppo di esperti a confrontarsi – nel corso di un convegno che si è tenuto presso l’Auditorium “Carlo Gabbi” Crédit Agricole Green Life – sugli scenari futuri derivanti da una progressiva carenza di acqua e le possibili ripercussioni non solo sull’ambiente e sull’ecosistema, ma anche sulla qualità di vita delle persone e dei soggetti imprenditoriali ed economici.

Gli esperti tecnici, coordinati dal giornalista Gianni Montanari, hanno proposto una riflessione storica sull’evoluzione climatica registrata nel territorio emiliano, curata da Giovanni Ballarini, professore emerito dell’Università degli studi di Parma, già membro di commissioni scientifiche nazionali e dell’Unione Europea. “Molti cambiamenti climatici hanno determinato modificazioni, cambiamenti e catastrofi oltre alla scomparsa di società che non sono state capaci di controllarne gli effetti – ha spiegato il prof. Ballarini – come quella del Popolo delle Terramare in Pianura Padana, nel 1200 a. C., che aveva introdotto una forma di agricoltura intensiva lungo le sponde del Po”.

“I cambiamenti climatici sono uno degli argomenti attualmente più trattati non solo a livello scientifico, ma anche socio-politico ed economico – ha sottolineato il professor Massimiliano Fazzini, PhD, coordinatore nazionale gruppo rischio climatico SIGEA – ed è assolutamente necessario e urgente cercare di progettare azioni di mitigazione ed adattamento che consentano di ridurre il rischio climatico”.

“Il distretto idrografico del fiume Po rappresenta una delle aree più importanti e sviluppate in Europa. Durante la prolungata siccità dei mesi scorsi sono emersi in tutta la loro gravità problemi di disponibilità e qualità della risorsa idrica e la perdita di componenti degli ecosistemi acquatici e della biodiversità ad essi associata – ha evidenziato Fernanda Moroni, biologa, dirigente del settore Pianificazione e gestione delle risorse idriche della Segreteria Tecnica Operativa dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po – Il terzo Piano di Gestione del distretto idrografico del fiume Po, in corso di attuazione, contiene le strategie di intervento per raggiungere, entro il 2027, l’obiettivo ambientale di “stato buono” per tutti i corpi idrici superficiali e sotterranei, da attuarsi in modo responsabile, solidale e collaborativo, sia da parte dei soggetti pubblici sia da parte degli utilizzatori/stakeholder del distretto. In questa direzione va anche il nuovo modello concettuale del ciclo dell’acqua, presentato di recente da United States Geological Survey (USGS) ed esempi di azioni concrete che perseguono questi principi sono rappresentati dallo Studio della risorsa idrica in Val d’Enza e dall’Investimento 3.3 della Misura C.2.4 del PNRR “Rinaturazione dell’area del Po”, in corso di progettazione e realizzazione”.

Particolarmente interessante anche l’intervento del professor Stefano Orlandini, ordinario di Costruzioni idrauliche presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, che ha presentato un’approfondita analisi sui serbatoi montani per la riserva idrica, la prevenzione delle alluvioni e lo stoccaggio idroelettrico. “Tra l’inizio del Novecento e il primo dopoguerra, i serbatoi montani sono stati protagonisti indiscussi, utili come riserve idriche per le città, per l’industria, per l’irrigazione e per il turismo – ha evidenziato il professor Orlandini – oggi è più che mai necessario rivalutare i serbatoi montani nella prospettiva di uno sviluppo economico verde del nostro Paese dove l’Uomo possa convivere in armonia con i processi naturali”.

Molti gli interventi e le domande da parte del pubblico in sala a cui gli esperti hanno fatto seguire risposte puntuali e dettagliate.

La giornata di lavori, aperta da Sergio Pedersoli, governatore del Distretto Lions Ib2 Lombardia, e da Cristian Bertolini, governatore del Distretto Lions 108 Tb Emilia Romagna, si è conclusa con l’intervento dell’ingegner Sergio Bandieri che ha presieduta la conferenza insieme ad Antonio Bernini in rappresentanza dei club Lions che hanno organizzato l’iniziativa.

GLI INTERVENTI DEI RELATORI IN SINTESI

Giovanni Ballarini, professore emerito dell’Università degli studi di Parma, già membro di commissioni scientifiche nazionali e dell’Unione Europea

“Molti cambiamenti climatici hanno determinato modificazioni, cambiamenti e catastrofi con scomparsa di società che non sono state capaci di controllarne gli effetti. Tra queste società se ne ricordano tre: la sparizione della società americana dei Maia (900 d. C.), il collasso dell’Età del Bronzo nel Mediterraneo (1200 a. C.) e la scomparsa del Popolo delle Terramare per la siccità in Pianura Padana (1200 a. C.). Quest’ultima condizione ha forti analogie con l’attuale periodo climatico e i dati raccolti stanno dimostrando che la siccità avvenuta 3200 anni fa è stata molto simile a quella attuale, con un sensibile abbassamento delle falde acquifere superficiali, probabilmente legato anche ad una secca del Po. Nonostante i terramaricoli abbiano scavato canali e pozzi sempre più profondi non hanno potuto evitare una catastrofe che ha portato alla scomparsa di una delle più antiche civiltà del Nord Italia e che nel corso della media Età del Bronzo aveva introdotto una forma di agricoltura intensiva lungo le sponde del Po, ben prima dello sfruttamento agricolo messo a punto dai Romani”.

Professor Massimiliano Fazzini, PhD – coordinatore nazionale gruppo rischio climatico SIGEA

“I cambiamenti climatici sono divenuti oggigiorno una delle argomentazioni più trattate non solo a livello scientifico, ma anche socio-politico ed economico. Evidentemente ci si trova di fronte ad un segnale climatico “nuovo”, mai registrato dagli strumenti di misura meteorologici almeno negli ultimi 250 anni, cioè da quando esiste, a livello globale, una rete di osservatori caratterizzati da precise regole di monitoraggio del dato, oggi riassunte nella direttiva WMO 1083. Evidentemente, gli studi di paleoclimatologia prodotti alle differenti scale temporali – che dunque “sostituiscono” o meglio ancora implementano le misure meteorologiche dirette – evidenzierebbero che l’intensità del global warming e la conseguente estremizzazione meteo-climatica rilevate nell’ultimo mezzo secolo non troverebbero segnali “storici” simili. Dunque occorre quantificare con “numeri” più precisi ed esaustivi possibile l’entità del climate change, o meglio della “crisi climatica” in atto, analizzando serie storiche omogenee, continue e ben distribuite dal punto di vista spazio-altitudinale. Allo stesso tempo è fondamentale interpretare i suoi effetti nei differenti ambienti morfodinamici che caratterizzano i vari ambienti fisici alla scala globale e soprattutto nazionale, piuttosto che a livello di bacino imbrifero. Nel caso specifico, è evidente che l’estremizzazione climatica, sempre piu evidente, stia incidendo in maniera drammatica sulle disponibilità idriche, in qualità e quantità. I suoi due lati della medaglia sono evidentemente siccità e alluvioni. Lunghi periodi senza precipitazioni significative o estese si alternano ad eventi meteorici di magnitudo elevata, che provocano gravosi problemi di dissesto idrogeologico, con rischio sempre piu crescente per la popolazione e per le attività di vario genere in cui l’oro azzurro è determinante. Sulla base di tali evidenze, occorre necessariamente ed urgentemente cercare di progettare azioni di mitigazione ed adattamento sia di tipo soft (conoscenza, informazione, formazione) che di tipo hard (opere idrauliche s.l.) che consentano in primis di ridurre nella maniera più drastica possibile il rischio climatico associato a tale drammatico segnale climatico”.

Fernanda Moroni, biologa, dirigente del settore Pianificazione e gestione delle risorse idriche della Segreteria Tecnica Operativa dell’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po

“Il distretto idrografico del fiume Po rappresenta una delle aree più importanti e sviluppate in Europa, che vive ulteriori possibilità di sviluppo legate alle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ma anche preoccupazioni sul proprio futuro, tenuto conto degli eventi estremi legati ai cambiamenti climatici in atto. Durante la prolungata siccità dei mesi scorsi sono, infatti, emersi in tutta la loro gravità, non solo i problemi di disponibilità e qualità della risorsa idrica, ma anche la perdita sottovalutata di componenti degli ecosistemi acquatici e della biodiversità ad essi associata. In questo quadro complesso e in continua evoluzione, i confini e i vincoli entro cui agire per la tutela quali-quantitativa delle risorse idriche sono definiti dalla Direttiva Quadro Acque 2000/60/CE (DQA). Le questioni ambientali e tecnico-istituzionali ancora da risolvere sono improrogabili non solo ai fini del raggiungimento degli obiettivi ambientali fissati dalla DQA, ma anche per individuare le tendenze evolutive delle attuali criticità e l’insorgenza di nuovi fattori di crisi. Tra queste troviamo l’eutrofizzazione delle acque superficiali, l’alterazione della struttura e del funzionamento dei corsi d’acqua (nello scenario attuale e futuro di carenza idrica e in relazione alle alterazioni idro-morfologiche conseguenti alle esigenze di utilizzo delle acque e/o di urbanizzazione degli ambiti di pertinenza fluviale), la riduzione ed eliminazione delle sostanze pericolose note ed emergenti, il monitoraggio e il controllo ambientale e di efficacia delle azioni, l’integrazione delle conoscenze e delle informazioni, il superamento della frammentazione di competenze e una governance efficace a scala distrettuale e nazionale. Quello che occorre fare e come farlo è già indicato dallo strumento operativo previsto dalla DQA, il terzo Piano di Gestione del distretto idrografico del fiume Po, pubblicato a dicembre 2021 (PdG Po 2021), in corso di attuazione nel sessennio 2021-2027. Partendo dai risultati ad oggi conseguiti con i Piani precedenti, nel PdG Po 2021 sono contenute le strategie di intervento per colmare il gap per raggiungere, al più tardi entro il 2027, l’obiettivo ambientale di “stato buono” per tutti i corpi idrici superficiali e sotterranei, da attuarsi in modo responsabile, solidale e collaborativo sia da parte dei soggetti pubblici sia da parte degli utilizzatori/stakeholder del distretto. Il buono stato delle acque del distretto rappresenta la condizione limite per mantenere la resilienza degli ecosistemi acquatici, e di conseguenza, per assicurare un utilizzo idrico fondato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili, la mitigazione degli effetti delle inondazioni e della siccità e la riduzione dei rischi per la salute umana e ambientale. Il raggiungimento di questo obiettivo trova, inoltre, ulteriori spinte nelle otto strategie/riforme che guidano la transizione ecologica e climatica dell’economia europea attraverso il Green Deal Europeo. Per trovare nuovi paradigmi di sviluppo e di intervento nella complessità e imprevedibilità che caratterizza questo momento storico, la produzione di maggiore e nuova conoscenza e la capacità di innovarsi tecnologicamente e culturalmente diventano imprescindibili al fine di realizzare soluzioni efficaci di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici in atto senza, tuttavia, perdere di vista tutti gli elementi che mantengono la resilienza dei sistemi ambientali da cui dipende l’economia e la società del nostro unico e insostituibile Pianeta. In questa direzione, il nuovo modello concettuale del ciclo dell’acqua presentato di recente da United States Geological Survey (USGS) rappresenta una importante e qualificata testimonianza.

Esempi di azioni concrete che perseguono questi principi sono rappresentati dallo Studio della risorsa idrica in Val d’Enza e dall’Investimento 3.3 della Misura C.2.4 del PNRR “Rinaturazione dell’area del Po”, in corso di progettazione e realizzazione”.

Stefano Orlandini, professore ordinario di Costruzioni idrauliche presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

“In passato, tra l’inizio del Novecento e il primo dopoguerra, i serbatoi montani sono stati protagonisti indiscussi dello sviluppo economico del nostro Paese. Non appena la tecnologia ha permesso di trasmettere l’energia da una località all’altra, si è pensato di poter investire nell’energia idroelettrica attraverso la costruzione di impianti sulla dorsale appenninica e soprattutto sull’arco alpino. I serbatoi montani si sono anche rivelati utili come riserve idriche per le città, per l’industria, per l’irrigazione e per il turismo. Dagli anni Sessanta del Novecento fino al primo ventennio del nuovo secolo, tuttavia, in parte per la riduzione delle sorgenti vantaggiose da utilizzare e in parte per la diffidenza generata dal disastro del Vajont, si è registrata una significativa perdita di importanza relativa dell’idroelettrico rispetto ad altre fonti energetiche. Oggi è necessario rivalutare i serbatoi montani per lo sviluppo economico del nostro Paese e illustro tre casi studio. Il primo caso di studio è quello del serbatoio di Vetto sul Torrente Enza, una riserva idrica essenziale affinché il distretto agroalimentare di Parma e Reggio Emilia possa mantenere la sua fama internazionale. Il secondo caso di studio è quello della centrale di Nant de Drance in Svizzera, un esempio di stoccaggio idroelettrico come strumento indispensabile per la gestione delle energie rinnovabili. Il terzo caso di studio e quello del serbatoio di Armorano sul Torrente Baganza, una riserva idrica di elevatissima qualità per le città e per le industrie alimentari di Parma, ma anche un valido strumento per la prevenzione delle alluvioni. Il mio intervento oggi invita a riflettere sulla realizzazione di nuovi serbatoi montani nella prospettiva di uno sviluppo economico verde del nostro Paese dove l’Uomo convive in armonia con i processi naturali”.

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Pubblicato da
Roberto Di Biase

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