2 agosto 2024, l’intervento del sindaco di Bologna Matteo Lepore nel 44° anniversario della strage alla stazione

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BOLOGNA – Il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, è intervenuto questa mattina in Piazza Medaglie d’Oro dopo il minuto di silenzio in memoria delle vittime della strage alla stazione del 2 agosto 1980.

Di seguito il discorso pronunciato.

“Caro Paolo, cari familiari delle vittime. Care cittadine e cari cittadini.
Autorità civili e militari presenti, sindaci e sindache, amministratori e amministratrici venute e venuti da ogni parte d’Italia con i vostri gonfaloni e le vostre fasce tricolore. Staffette della memoria e rappresentanti delle associazioni, rappresentanti delle scuole.

A tutti voi mi rivolgo da questo palco, 44 anni dopo la più efferata strage di civili perpetrata dal terrorismo fascista e dalla strategia della tensione su suolo italiano e 50 anni dopo la strage dell’Italicus, due ferite enormi per la nostra città che causarono 85 e 12 morti.

Per prima cosa voglio esprimere la mia piena solidarietà a Paolo Bolognesi e agli altri familiari delle vittime, recentemente raggiunti dalle parole minacciose del terrorista e stragista Bellini.

Caro Paolo, sappi che ci troverai sempre al tuo fianco, al fianco di chi in questi lunghi lunghissimi anni si è battuto per la verità e la giustizia.

Voi che avete scelto la strada dei tribunali del popolo italiano per dimostrare la fondatezza delle vostre ragioni e avete contribuito a scrivere una delle pagine più importanti della nostra democrazia repubblicana.
Voi, i familiari delle vittime, per anni abbandonati dallo Stato, boicottati e depistati da certa politica.
Vi hanno provato più volte ad emarginare e delegittimare, ma avete strenuamente e coraggiosamente resistito.
A voi va il nostro incondizionato e doveroso grazie.

Anche per questo motivo, chiedo al Governo di impegnarsi al più presto in merito alla legge sui risarcimenti per le vittime del terrorismo.
Da anni, infatti, assistiamo a balletti e giustificazioni in merito. Da ultimo il dibattito in parlamento sulle giuste terminologie e le coperture finanziarie.
Il risultato è che dopo 44 anni, le vittime ancora non sanno se saranno risarcite, mentre gli autori materiali della strage hanno scontato solo pochi mesi di carcere. Nulla o quasi i mandanti e i depistatori.

Il 2 agosto 1996, Paolo Bolognesi leggeva da questo palco il suo primo discorso in qualità di presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime del 2 agosto 1980.
Prendeva allora il testimone del primo presidente dell’Associazione, il compianto Torquato Secci.
Caro Paolo, nonostante la tua ritrosia, sappi che sei una figura di riferimento per tutti noi e per me in primo luogo, lo dico qui con affetto. Al tuo fianco.

E voglio cogliere l’occasione per ringraziare pubblicamente di fronte a tutte e tutti altre due donne straordinarie, che sono presenti qui oggi in Piazza: Rosanna Zecchi, già presidente dei familiari delle vittime della Uno Bianca e Daria Bonfietti, attuale presidente dell’Associazione dei familiari di Ustica.

Cara Rosanna, cara Daria e caro Paolo, voi siete, lo sappiamo, il volto di una parte importante di Bologna.
Avete rappresentato centinaia di famiglie che hanno subito torti inimmaginabili e per tutta la vostra vita avete dedicato le vostre giornate e le vostre notti, sacrificato i vostri affetti e le vostre energie affinché la verità venisse a galla.
Il vostro è stato un cammino coraggioso e instancabile, carico di dolore vero, ma indissolubilmente pieno di amore e di generosità.

Ecco perché come Sindaco di Bologna, a nome della città medaglia d’oro per la Resistenza e il valor civile, ho deciso di conferire a ciascuno di voi la Turrita d’argento, come riconoscimento e ringraziamento da parte nostra per tutto quello che avete fatto per noi e per le future generazioni.

In questi primi due anni e mezzo di mandato, ho voluto incontrare i bambini e i ragazzi delle nostre scuole accompagnati dai loro insegnanti, tanti sono qui in piazza e li voglio ringraziare.
Ogni volta che accade, tocco con mano lo straordinario lavoro fatto per il passaggio della memoria di generazione in generazione.

Nell’antica cultura giapponese esiste una pratica chiamata del Kintsugi, letteralmente riparare con l’oro.
È un’antica tecnica di restauro dei ceramisti per riparare le tazze della cerimonia del tè. Le linee di rottura sono lasciate visibili, evidenziate con la polvere d’oro. Ecco che gli oggetti così riparati diventano vere e proprie opere d’arte. È la concezione che dall’imperfezione o da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di bellezza estetica o interiore.

Ho sentito descrivere per la prima volta questa tecnica da alcune insegnanti impegnate a raccontare la storia del 2 agosto ai bambini delle elementari.
Ho visto i testimoni mostrare le ferite fisiche ed emotive, condividerle con i ragazzi adolescenti nel corso dei laboratori per la memoria. Un incredibile momento di crescita e di consapevolezza individuale e collettivo.

Per questo Bologna è speciale, per quella polvere d’oro stesa su di noi durante i racconti delle scuole, le scuole che portano i nomi delle vittime delle stragi.
Come la scuola primaria intitolata a Eckhardt e Kay Mäder, i due fratelli tedeschi uccisi dallo scoppio della bomba alla stazione il 2 agosto 1980 quando avevano ancora 14 e otto anni, insieme alla loro madre Margret.

Per questo, noi la generazione dei nati dopo lo scoppio della bomba sentiamo sulla nostra pelle il brivido del ricordo.
Per questo, i nostri cuori porteranno per sempre quella cicatrice incisa e custodita gelosamente nel petto.

Ed è proprio in uno dei quei momenti che ho fatto una promessa da onorare. La promessa di ricordare da questo palco un testimone. Una figura chiave della nostra storia.

“La vita mi ha concesso di restare vivo, il mio destino è stato diverso da quello degli altri. Potrei essere là, a Sperticano, sepolto con la mia famiglia, e invece sono ancora qua, a raccontare. Sono diventato un sopravvissuto, senza premeditarlo, senza volerlo, quasi. E se la vita mi ha concesso questo, il mio compito è raccontare la mia storia, che è la storia di tutti quelli che quel giorno erano insieme a me e che poi non ci sono stati più”.

Sono le parole dell’ultimo dei testimoni diretti di una enorme strage, che tra Marzabotto e Monte Sole provocò almeno 770 vittime, di cui 217 bambini, 392 donne e 132 anziani tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944.

Ci ha lasciato a 96 anni compiuti, il 10 gennaio 2024 e il suo nome era Ferruccio Laffi. Quest’anno ricorre l’80esimo anniversario di quell’eccidio. Il male assoluto. Il luogo dove tutto è iniziato.

Monte Sole avveniva tre anni prima della strage di Portella della Ginestra, nella Piana degli Albanesi in Sicilia, quando il 1º maggio 1947 ci fu la prima strage dell’Italia repubblicana, con l’eccidio di contadini e delle loro famiglie, che in quel luogo si erano raccolti per festeggiare la ricorrenza della Festa dei lavoratori.

La strage di Monte Sole avvenne nel 1944 e purtroppo come molte altre stragi italiane per mano nazifascista fu oggetto di occultamento e depistaggi per lungo tempo. Un metodo rodato, come si ebbe a scoprire nei processi e dalle carte del cosiddetto Armadio della Vergogna.

L’11 Ottobre 1944, a pochi giorni dall’eccidio, il Resto del Carlino scriveva: “Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuorilegge, ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto… Siamo dunque di fronte a una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o, quanto meno, qualche persona reduce da quei luoghi, avrebbe appreso l’autentica versione dei fatti”.

Come sappiamo, la terribile verità sarebbe venuta a galla grazie alle testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti come Ferruccio, il quale a soli 16 anni dovette assistere allo sterminio di tutta la sua famiglia. Lo strazio di essere sopravvissuto portò Ferruccio ai limiti della pazzia e proprio la scelta di diventare testimone gli offrì il senso più profondo della vita che gli rimase da vivere. Nei suoi sogni, per anni è tornato l’incubo di quel giorno. L’ultimo pranzo intorno al tavolo, la corsa nel bosco, le fiamme che mandano in rovina il casolare, il cortile con i corpi senza vita dei suoi cari.

Ferruccio lo abbiamo ricordato pochi mesi fa in una giornata di grande commozione, riuniti attorno all’altare della sua chiesa di Marzabotto, accompagnandolo al cimitero con i canti dei partigiani, le note di Bella ciao e la musica dei compagni e delle compagne. Lo abbiamo salutato con gli occhi gonfi di lacrime, restituendo a Ferruccio quelle stesse lacrime che lui stesso ci aveva donato per tutta la sua vita.

Occhi i suoi, che avevano visto cose che non si riuscivano a raccontare con le parole. “Non è per nulla facile prendere tua madre e metterla dentro una buca” diceva. Ma la sua memoria si è tramutata in un gesto continuo d’amore. Il suo messaggio ai giovani era chiaro: basta intolleranza! basta guerre!

“La nostra pietà per loro significhi che tutti gli uomini e le donne sappiano vigilare perché mai più il nazifascismo risorga” così recita la lapide del cimitero di Casaglia.

Quante volte abbiamo incontrato Ferruccio nel corteo del 2 agosto? Sempre accanto ai familiari delle vittime. Ferruccio quando lo incontravi doveva solo guardarti negli occhi per condividere la consapevolezza della barbarie e spronarti a scegliere il contrario.

Cari e care bolognesi, voi sapete benissimo di cosa sto parlando.

Perché se siete qui a migliaia, oggi, nel caldo torrido d’agosto è perché avete incontrato nella vostra vita persone come Ferruccio, come Paolo, come Rosanna e come Daria. Avete ammirato le loro ferite dorate e siete rimasti colpiti dalle loro lacrime, dai loro occhi, dai loro racconti, dalle loro ali.

“Io so i nomi”, scriveva Pierpaolo Pasolini il 14 novembre 1974 sulle pagine del Corriere della Sera. “Io so i nomi del ‘vertice’ che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di ‘golpe’, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli ‘ignoti’ autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi, ma non ho le prove, nemmeno gli indizi”.

Cinquant’anni dopo non solo abbiamo le prove, ma pure le sentenze.

Colpire Bologna voleva dire colpire la possibilità che l’Italia determinasse democraticamente il proprio futuro, la possibilità dei cittadini di scegliere liberamente chi potesse e dovesse governarli.

Gli attentati, non solo quello della Stazione di Bologna – ma soprattutto quello – dovevano generare terrore, oltre all’orrore. La paura di essere colpiti in qualunque luogo, in qualunque momento. Doveva convincere i cittadini a cedere porzioni di libertà in cambio di una maggiore sicurezza.

In questa chiave va anche letta la Strage, il tentativo attraverso la violenza di allontanarci dalla piena democrazia, pregiudicando il funzionamento delle istituzioni repubblicane nate dalle ceneri del fascismo.

La sentenza sui mandanti della Strage del 2 agosto indica con forza questa verità.

“La strage di Bologna ha avuto dei `mandanti´ tra i soggetti indicati nel capo d’imputazione, non una generica indicazione concettuale, ma nomi e cognomi nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure, quale contesto operativo della strage di Bologna”.

“Anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti – continua la Corte-, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”.

La conferma in appello della sentenza Mandanti non solo ci avvicina al riconoscimento definitivo delle responsabilità di Paolo Bellini, ma cristallizza e conferma un quadro probatorio solido, costruito con un lavoro minuzioso della Procura e degli avvocati di parte civile, e dell’associazione dei familiari delle vittime – che ancora una volta voglio tutti pubblicamente ringraziare da questo palco, per il loro coraggio, per la loro forte dedizione. Magistrati, avvocati, forze dell’ordine e familiari delle vittime.

Un lavoro straordinario, che li ha visti attraverso gli anni lavorare attivamente per ricostruire responsabilità e verità. Una ricostruzione complessa perché arriva al riconoscimento giudiziario a 44 anni dalla Strage.

Ora, però, tocca al paese. Ora tocca all’Italia, questa straordinaria e bellissima nazione che grazie al riscatto della lotta di liberazione possiamo chiamare dignitosamente patria e Repubblica Democratica.

Tocca all’Italia riconoscere quanto è successo alla Stazione di Bologna. È arrivato il momento di fare i conti con la storia recente del nostro paese. Scrivere della bomba e delle sentenze dei Tribunali nei libri di testo e nei manuali di storia. È arrivato il momento, come è arrivato per il Cile, per l’Argentina, per la Spagna e per la Grecia.

È arrivato il momento di riconoscere l’antifascismo come ragione comune e fondativa del nostro patrimonio di valori, respingendo senza mezzi termini il tentativo ormai palese ad ogni livello istituzionale di superarne la funzione storica, politica e giuridica.

L’Italia è e deve rimanere antifascista, indipendente, unita e indivisibile, un paese europeo e mediterraneo, un paese accogliente e antirazzista, fondato su principi di non violenza e di pace, di libertà e di democrazia.

Cari e care bolognesi, non ci sono battaglie per la giustizia e per la verità che non possono essere vinte.

Ora spetta a noi, spetta a noi: le italiane e gli italiani. Rimettiamoci in cammino.

Ricordiamocelo chiaramente quando torneremo a casa tra poco, NOI abbiamo visto gli occhi che hanno visto. Siamo NOI ora i testimoni.

Spetta a noi”.